Distanza sociale di Roberto Valentini

Racconto di Roberto Valentini, ambientato ai tempi del Coronavirus.

Almeno una volta alla settimana Marco Lodi andava a pranzo allo Spizzo, una risto-pizzeria autentica come una banconota falsa, con i pavimenti in LVT e le lampade in plastica rossa che pendevano polverose sul tavolo apparecchiato con tovagliette di carta dalla grafica pseudo rustica. La cucina non era niente di speciale, pizze e piatti precotti camuffati da freschi, ma i prezzi erano abbordabili e verso mezzogiorno i camionisti si contendevano i posti a gomitate per poi lasciarli un’ora più tardi ai sorrisi annoiati di bancari e impiegati. Una volta i camionisti sceglievano posti dove si mangiava bene spendendo poco e gli impiegati e i bancari andavano in un ristorante vero, di quelli con la tovaglia, oppure nella zona loro riservata della mensa aziendale. Ma forse i camionisti non erano più gli stessi, e nemmeno i bancari, e tutti andavano in quel posto solo perché era alla moda: Spizzo, la catena di risto-pizzerie con “autentico cibo italiano”.

Da quando, pochi mesi prima, aveva iniziato a lavorare nello studio legale Monti Partners, Marco Lodi, quarantasei anni, laurea alla Bocconi e master alla Royal School of Economics, un motivo per andare a pranzo da Spizzo almeno una volta alla settimana lo aveva.

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Arrivava sempre verso le 14, poco prima che la cucina chiudesse, chiedeva il solito tavolo, laggiù in fondo alla sala, da dove si godeva di una visuale ampia sul locale. Mentre una cameriera lo accompagnava, lanciava qualche occhiata furtiva a destra e sinistra. Poi sedeva, ordinava, mai la pizza, ma pasta al pomodoro o alle vongole, e attendeva fingendo di consultare il telefonino. Tanto prima o poi sarebbe passata.

Infatti prima o poi passava, avvolta nei fuseaux e maglietta nera d’ordinanza che ne metteva in risalto il fisico potente, da sportiva, forse da pallavolista o giocatrice di basket. Attraversava la sala con una velocità superiore alle altre cameriere, quasi volava con le spalle larghe, le gambe lunghe e quella treccia scura che le sbatteva sulla schiena a ogni falcata. Come tutte le ragazze in servizio, oltre ai fuseaux indossava una polo nera e un berrettino da baseball che ne raccoglieva la chioma corvina, mettendo in risalto gli spiccati caratteri mediterranei del volto.

Va bene la crisi di mezza età e va bene il divorzio – pensò Marco – o meglio “la sospensione del matrimonio” come l’aveva definita la sua ormai ex-moglie, ma farsi prendere dalle fantasticherie sessuali per una cameriera factotum nel ristorante alla moda della pausa pranzo cittadina non se l’aspettava. Invece era successo: andava tutti i giorni a mangiare in quel locale finto per vedere la cameriera.

Dalle mansioni eterogenee che svolgeva, cassa, servizio ai tavoli, cucina, riassetto, si era fatto l’idea che fosse ai livelli alti nella gerarchia del ristorante, subito dopo la franchisee, come il suo lessico ormai imbarbarito gli faceva chiamare la gestrice di quell’attività in affiliazione commerciale, una signora bionda che lo aveva preso in simpatia, lo chiamava dottore con tono suadente e gli offriva sempre un limoncello che lui rifiutava.

A lungo si era chiesto se quella donna fosse italiana o straniera. Poteva essere pugliese o calabrese, greca o spagnola, ma anche tunisina, egiziana, libica. Per settimane non sentì la sua voce, si accontentava di vederla passare e scambiare con lei occhiate veloci, oppure rapidi sorrisi, senza mai rivolgerle la parola. Finalmente una volta, mentre gli allungava il conto abbassandosi a sufficienza fino a consentire al suo occhio molesto di penetrare nella scollatura, le parlò.

– Come ti chiami?

– Carla – rispose lei, senza aggiungere altro, se non un sorriso di sorpresa che bastò a farlo sentire un deficiente.

– Io Marco, piacere.

– Piacere – rispose lei.

Non si diedero la mano, e rimasero per un attimo senza saper cosa dire.

Di solito Marco Lodi era un tipo spigliato, un donnaiolo regolare, che si rivolgeva prevalentemente a signore del suo ambiente, invece quella volta rimase lì bloccato a guardarle gli occhi sorridenti e le sopracciglia folte, il viso spigoloso, la bocca aggraziata, i denti piccoli, le mani da lavoratrice vera.

Fu lei a rompere il ghiaccio.

– Non prende mai la pizza? – disse – Qui è buona, sa?

– La prossima volta la ordinerò – rispose Marco, contento perché evidentemente anche lei lo teneva d’occhio. Si alzò, lasciando cinque euro di mancia sul tavolo, meglio non esagerare, visto che il conto era di diciotto. Lei sorrise e lo accompagnò all’uscita. Una volta fuori notò che lo stava osservando attraverso le vetrate mentre saliva sul suo SUV di gran marca tedesca. “Forse le piacerebbe fare un giro, uno di questi giorni”, pensò gongolando del suo vantaggio sociale.

***

Poi arrivarono i giorni del virus, i contagi, i morti, la quarantena, il lavoro da casa, i ristoranti chiusi e si dimenticò di Carla. Può essere che i pensieri siano collegati ai luoghi, anche quelli erotici, così cambiando luogo svanì anche il suo flirt immaginario con la cameriera. Si chiuse in casa, si attaccò ai social, condivise paure e speranze del suo paese e del mondo intero. Non fu facile: essere solo, anzi single, come gli piaceva definirsi con un pizzico di orgoglio quando parlava con i suoi amici sposati e annoiati dalla vita coniugale, fino a quel momento era stato una specie di vanto, più che uno stato sociale. Essere single gli sembrava una sfida verso il futuro, anzi si sentiva lui il futuro, era re di se stesso, senza obblighi verso nessuno, proiettato verso un’incessante rincorsa dell’inizio perpetuo.

“In amore non ci sono che inizi”, ripeteva, come aveva letto da qualche parte, e a lui piaceva iniziare: iniziare nuovi progetti, nuove attività, soprattutto nuove relazioni sentimentali, sentire il piacere intenso della seduzione fine a se stessa, il più pericoloso degli specchi perché riflesso negli occhi speranzosi di qualcun altro. Durare era un’altra questione, che non si era mai posto, visto che nessuna relazione riusciva a resistere a una estinzione rapidissima. Quella con sua moglie, un vero record, era andata avanti dieci anni, barcamenandosi tra alti e bassi fino a naufragare: durare per lui era sempre un problema futuro e il futuro era sempre grande e pieno di possibilità da cogliere.

Invece l’epidemia sembrava aver azzerato il futuro, trasformandolo nel “qui e ora” dei bisogni primari: la spesa, la farmacia, la lavanderia, se non addirittura il buio del passato, con le sue processioni e le sue superstizioni per tenere lontano gli immaginari untori. Il futuro cominciò ad apparire sempre più come un’arroganza dell’io, inadatta ai tempi della nuova peste e le lusinghiere certezze sulle quali aveva costruito tutta una vita cominciarono ad appannarsi.

Così, la terza domenica di ordinanza non ce la fece più e decise di uscire a fare una passeggiata. Non era ancora vietato, come lo sarebbe stato da lì a poco, ma fortemente sconsigliato, eppure come lui parecchi uscivano per fare due passi nel parco. Del resto, non credere all’incredibile è una delle più tenaci caratteristiche dell’animo umano, e non resistere alle privazioni una delle caratteristiche invincibili dell’animo italiano.

Il parco era a due passi da casa sua, sarebbe stato a distanza sociale dagli altri, almeno due metri, avrebbe preso pure la mascherina e se la sarebbe messa se necessario.

Era una bella giornata di sole, quel marzo truffaldino si divertiva a giocare ad aprile, la temperatura era gradevole e gli alberi fioriti. Dopo il silenzio del suo attico high tech, la forza della natura, per quanto addomesticata come quella di un parco cittadino, era irresistibile, seducente come una chimera.

Camminando incrociava uomini e donne che portavano fuori il cane, anziani anche a braccetto, proprio loro che sarebbero dovuti rimanere a casa, ragazzi in tenuta da jogging, donne con la borsa della spesa, nonostante il supermercato fosse a due chilometri. Camminava pensando che forse quell’incubo non era vero. Avevano esagerato, anzi non era vero per niente. Come poteva quell’aria così fresca contenere un virus letale? Impossibile. Guarda quella ragazza laggiù, com’è bella! Come può esserci un virus? Che avessero ragione i complottisti? Non era forse una grande farsa organizzata dalla Cina o dalla Cia, oppure da Soros, da Putin e da Belzebù per punire gli uomini di essere uomini?

Stava perdendosi in queste farneticazioni millenariste quando la vide da lontano, appena voltato l’angolo di un vialetto. Era Carla, la cameriera dello Spizzo. O no? Forse qualcuna che le assomigliava, da lontano non vedeva bene. Aveva un cane al guinzaglio, un bastardino grigiastro così brutto da fare tenerezza.

Si avvicinò affrettando il passo, persino sfiorando qualche persona che si ritrasse sibilando ingiurie scandalizzate. La seguì per un po’ rallentando il passo, poi approfittò di una curva per tagliare attraverso il prato, in modo da poterla incontrare di fronte. Rallentò quando erano a circa tre metri uno dall’altra. Indossava la mascherina, ma era lei, non c’era dubbio, così le si rivolse sicuro.

– Ciao Carla – disse.

Lo scrutò turbata, gli occhi cercavano un appiglio, che non trovarono. Anche il cagnolino si bloccò guardandolo con espressione stupita, così Marco alzò la mascherina per farsi riconoscere.

– Ti ricordi? ci vediamo al ristorante. Sono quello che non ordina mai la pizza.

Lo sguardo della donna si rilassò.

– Ah sì, ora ricordo… Marco vero?

– Sì – rispose tendendo la mano d’istinto, con sicurezza.

La donna esitò, poi gli porse la propria. Era piacevole, soda, per niente sudaticcia e Marco, pur notando la sua ritrosia, la tenne nella sua più del necessario.

– Ma non sarai mica spaventata dal virus?

– Mah non so…

– Guardi, un mio amico medico, primario all’Ospedale mi ha detto che si tratta di un’influenza, niente di più: una roba come tutti gli anni, l’hanno ingigantita e gonfiata.

– Eh… speriamo

Ripresero a camminare, tenendosi a debita a distanza. Carla non si era tolta la mascherina e guardava in basso tenendo il cane al guinzaglio

– Che coincidenza incontrarti qui al parco. Abiti da queste parti? – domandò.

– Beh, non proprio, sono venuta qui per portare fuori il cane di una signora. Hanno chiuso il ristorante e siamo rimasti senza lavoro, così dò una mano a Casa Pace, la residenza per anziani di via Indipendenza. Lì cercavano assistenti anche non referenziati.

– Capisco. E quando riapriranno il ristorante?

– Non lo so. Il padrone ha detto che ci vorrà tempo, ma non ha detto quanto. Peccato, mi piaceva lavorare lì.

Continuarono a camminare nel parco e a ogni passo la distanza tra loro sembrava aumentare, gli argomenti a finire, l’imbarazzo a crescere. Eppure qualcosa c’era, lo sentiva e bisognava fare presto, pensò Marco, perché era bella, molto bella, l’ideale per un nuovo inizio.

– Senti, visto che in tante settimane mi hai sempre servito tu il pranzo, vorrei ricambiare e invitarti a cena. Che ne dici?

La donna si bloccò, sorprendendo il cane che la precedeva e quasi si strozzò con il guinzaglio.

– Ma… ma dove? E’ tutto chiuso!

– A casa mia. Abito qui vicino e sono un ottimo cuoco. Se non hai altri impegni, ovviamente.

Carla lo guardò confusa, anzi incredula.

– Ho il cane… ma non so se è il caso…

– Pensaci, dai, così per passare qualche ora assieme in questa tristezza.

– Alla televisione dicono che è meglio non…

– Alla televisione dicono solo fesserie! Dai porta il cane alla sua padrona e vieni a casa mia. Se mi dai il numero, ti mando l’indirizzo.

Era perplessa, ma si vedeva che era tentata. Marco Lodi sentiva con soddisfazione che la sua fantasia si stava concretizzando: estrasse il telefono dalla tasca e rimase in attesa finché alla fine la donna non gli scandì il numero.

– Perfetto – disse Marco – Ti aspetto alle otto. Ecco la casa è quella là, si intravede anche da qui, quella alta laggiù: io sto all’attico all’ultimo piano, prendi l’ascensore e sali in un attimo. Però mi raccomando: quando arrivi ti togli la mascherina, eh?

La donna annuì con un brillio negli occhi. Marco la salutò e si avviò verso casa, pregustando un nuovo inizio.