Grosso guaio dappertutto di Marzia Musneci

 Racconto di Marzia Musneci, ambientato ai tempi del Coronavirus.

Una settimana di quella rottura. Non si vede la fine e già va da schifo.

Hanno dato un’occhiata fuori, Zek e Sam: strade deserte, una macchina ogni bestemmia di suora, e troppe col lampeggiante blu, che per loro sono mica salutari.

Anche a fregarsene delle menate sul Coronacoso – e state a casa, e non uscite, e guai a voi – uno esce per fare che?

La Vigor è chiusa, perciò niente boxe; Abbe è chiuso, perciò niente lavoro; il mondo è chiuso, perciò niente affari, niente di niente.

Sette giorni di divano sfondato e tele, dove passano solo le notizie sull’ecatombe in corso.

Zek ha il pollice morto sul telecomando e le cuffiette in disarmo sul collo; Sam ha rimediato chissà quando un Urania abbandonato da chissà chi, ma fissa le pagine per quarti d’ora interi, lo sguardo a perdere.

– Che palle strapalle, ’sto coronavairus – sbotta Zek.

– Virus.

– No, quello ha detto vairus.

– Vir… vabbe’, di’ quello che ti pare.

– Dico che così divento scemo, dico.

– Diventi?

– Bella. Bella battuta. ’Fanculo, Sam.

Zek si alza tirandosi dietro il fratello. Sam sbuffa. Dei due, è Zek quello che vuole staccarsi, ma certe volte essere gemello congiunto è una lagna pure per lui. Adesso, per esempio: che ci tornano a fare, alla finestra? Tanto lo spettacolo è sempre quello: torri e stecche, strade morte, cielo azzurro senza scopo, fioriture a salve, primavera sprecata.

– Guarda te se piove un giorno, ’sto stronzo – dice Zek.

Un giro intorno al tavolo e inciampano in uno strofinaccio sporco. Tre passi e si trovano fra i piedi un calzino puzzolente. Ancora tre e una felpa lercia per poco non li sdraia sul pavimento lurido.

Sam si guarda intorno. – Questa casa è un cesso – dice.

Zek mugugna che be’, bella non è mai stata.

– Visto che dobbiamo starci chiusi dentro, magari se è pulita…

– Naaa. Se non tocchi lo strato di zella, quella manco si vede. Che, te le devo insegnare io, ’ste cose?

Sam si arrende.

Di nuovo il divano.

Zek fa zapping senza nemmeno guardare, Sam fissa il vuoto e arriccia il naso, di colpo sente tutte le puzze del mondo. Una gamba gli balla per il nervoso. Veloce, poi più veloce, finché il tremore non passa a Zek.

– E che cazzo, Sam! Vabbe’, ho capito! Forza, puliamo ’sto schifo di casa.

La cosa peggiore sembra il lavandino pieno di stoviglie sporche a cui non hanno cambiato l’acqua da giorni. Nel liquame marrone galleggiano strie scure viscide al tatto che strapperebbero versi schifati pure a un sorcio di fogna. Sam insiste per pulire il piano d’appoggio prima di lavare qualsiasi cosa. In mezz’ora c’è un metro quadrato di lindore che stona con gli altri cinquantanove metri quadrati di lerciume.

– Cazzo, te l’avevo detto: non si disturba la zella. Mo’ tutto pare più zozzo di prima – dice Zek mentre fa per tornare sul divano.

– Era quello, il colore? – lo blocca Sam.

– Eh?

– Il lavandino. Era di quel colore?

– Boh.

– Mi sa di no.

Sam si china mentre Zek alza gli occhi alle ragnatele del soffitto. Si sistemano davanti al mobiletto sotto il lavello, da dove, di norma, tirano fuori solo il detersivo per i piatti circa una volta a settimana, senza nemmeno guardare. Dietro a quello, svetta una selva di flaconi, bottiglie di plastica e barattoli.

– Ma che è tutta ’sta roba?

– E che ne so?

– L’abbiamo comprata noi? E quando?

Tirano fuori gli oggetti misteriosi uno per uno, smadonnando perché restano appiccicati alle dita, e riportano alla luce il piano d’appoggio, medagliato dalle impronte chiare dei flaconi sulla patina di grasso e polvere.

– Tocca pulire prima qua sotto – decide Sam.

Zek sbuffa e spruzza un prodotto a caso, Sam ci dà giù di forza e in un amen gli bruciano occhi e pelle.

– Ma che è, napalm? – tira su col naso.

Mentre gli occhi di Sam diventano rossi, l’interno del mobile torna dell’originario color pulce morta. Presi da un entusiasmo inquietante, i gemelli grattano via la polvere grassa dai pannelli laterali e dalle mattonelle sul fondo. Perché lì non c’è nessun pannello. Solo una cantinella di una decina di centimetri, in basso.

Zek si ferma. Dietro l’asse la mano non scorre, incontra un ostacolo. Cerca di toglierlo, ma è incastrato forte.

– Be’? Dare una mano no? – ringhia.

– Sembra uno di quei cosi di detersivo liquido. È grande. – Va a tasto e a casaccio Sam.

Stronfiano finché non lo tirano fuori, il coso di plastica. È pesante perché è pieno. Scuro pure quello di unto e polvere.

Puliscono l’etichetta con uno straccio umido. Piano, per non strapparla. Emergono due strisce rosse verticali, con una scritta consumata che le attraversa in croce.

Zek e Sam la fissano a lungo, le facce accese da un sorriso incredulo.

– Ossantammerda – esala Sam.

***

– Ua! Se ce la giochiamo bene, ci tiriamo fuori la grana da camparci un mese.

– Eh. Magari – sospira Sam.

Con la chiusura del mondo intero non possono contare sui guadagni della Vigor e del bar di Abbe, dove da un po’ danno una mano nei week end. Spiccioli, ma buoni per tirare avanti. Abbe dice che arriverà un aiuto, però chissà quanto, chissà quando e chissà se anche per loro, e lo stomaco mica aspetta.

– Non siamo nemmeno quelli messi peggio – medita Sam. – Pensa a Juanito che non scippa più nessuno perché non gira un’anima.

– Già, poveraccio. E quello sfigato del Colibrì? Manco un appartamento da ripulire, cazzo, ce ne fosse uno vuoto.

Seduti sul divano con il flacone dritto sul tavolino dove di solito poggiano i piedi. Prima, però, l’hanno lustrato. Perché quella è roba preziosa, che non si trova più, a sentire la tele.

Sui cellulari arrivano messaggi di concorsi del cavolo, e il premio in palio è lei: l’Amuchina.

E adesso ce l’hanno davanti. Un sacco di Amuchina che stava lì da chissà quanto tempo.

È un quarto d’ora che Sam ha le labbra a punta, segno che pensa forte a come sfruttare al meglio quella che Zek chiama “la botta di culo del Coronacoso”.

– Non ci conviene venderla tutta insieme – medita.

– Eh no. Vendere all’ingrosso è remissione certa.

– Giusto. Ci sarebbe da fare le dosi, ma le bustine per l’erba vanno mica bene. Ci servono un po’ di bottigliette.

–  E dove le troviamo, le bottigliette? E dove li troviamo i clienti, che sotto i ponti non girano più manco i gatti?

– Eh, piano! Una cosa alla volta – ghigna Sam.

Spiega l’idea: Ahioilnaso e Hulk, lì alla Vigor, sono pratici a passare parola. Organizzano certi rave sotto lo Scimmione al quinto ponte che manco il manager di Eminem. Un paio di telefonate e si metteranno in moto. Vorranno qualche euro o un paio di dosi in cambio, ma una volta risolta la questione delle bottigliette, ci sarà solo da mettere in fila i compratori.

– ’Mmazza, Sam. Geniale.

– C’hai la febbre?

– No, perché?

– Perché una cosa così non me l’hai mai detta.

– Devono essere ’sti domiciliari, non ci fare il callo. C’è ancora da capire con che le facciamo, le dosi.

– Fammi pensare – dice Sam.

Zek prende il flacone di Amuchina, cerca qualcosa sulle etichette posteriori, per la maggior parte illeggibili.

– Senti un po’, ma non è che sarà scaduta?

– L’Amuchina scade?

– Boh.

Zek svita il tappo, annusa, storce il naso e richiude.

– Dalla puzza sembrerebbe di no. Resta solo da…

– A te non viene in mente nessuno che c’ha un sacco di bottigliette?

– Eeee…

– Forza, su.

Zek si spreme le meningi. – Abbe! Abbe c’ha le bottigliette!

Sam applaude a sfottò, ma Zek sembra troppo contento per prendersela a male.

– Quelle dei bitter, degli analcolici, dei succhi di frutta – elenca estatico.

– Un po’ troppo grandi, ma…

– E chissene, Sam. Magari non la vendiamo pura, l’Amuchina. La tagliamo un po’ con l’acqua.

– Non se ne parla. Se metti in giro roba tagliata a cazzo di cane si sparge la voce e non compra più nessuno.

– Poco poco?

– Aumentiamo il prezzo, va bene? Ma da qui roba tagliata non ne esce.

– Come ti pare, sei tu il genio.

Non devono nemmeno rischiare un’effrazione. Hanno le chiavi del bar di Abbe, perché il sabato sera chiudevano loro il locale a notte alta.

Sam aggiunge alle labbra a punta di quando pensa la ruga fra gli occhi di quando sta per piantare una grana.

– Però mica lo so se va bene. Abbe si fida di noi. Anche Luz. E noi entriamo a casa loro di nascosto?

– E allora? Gli portiamo via un po’ di vuoti a rendere. Si lamenta sempre che non sa dove metterli, Abbe.

– Appunto. Basterebbe chiederglieli, no?

– ‘E che ci dovete fare? E a che vi servono? E come mai?’ – conta sulle dita Zek. – Che gli raccontiamo? Soprattutto a Luz, che quella ti vede attraverso.

– Dici?

– Dico.

– Mi sa che hai ragione.

– C’hai la febbre? Te, ragione non me la dài mai.

– Saranno ’sti domiciliari, non ci fare il callo – scimmiotta Sam.

Confabulano per accordarsi sul momento migliore per fare il colpo. Di notte, ma non troppo tardi, che il vetro fa casino e nel silenzio pure un fruscio pare un botto. Serve un’ora di buio pesto, ma con le orecchie della gente ancora prese dalle tv.

– Le dieci? – propone Zek.

– Mmh. Girerà ancora qualcuno, magari gli sbirri…

– Quelli girano sempre.

– Sì, però…

– Cacasotto.

– Coglione.

– Insomma, Sam. È un’impresa commerciale, questa. C’ha i suoi rischi, è normale.

– Ok. Andata – sospira Sam. – Stasera alle dieci?

– Alle dieci.

***

Zek e Sam mettono piede sull’asfalto con lo stupore di chi sbarca su Marte. Si guardano intorno frastornati, schiacciati dal vuoto e dal silenzio. Gli schermi delle tv sfarfallano dietro le finestre chiuse, unico segno di vite segregate.

Le strade di un film di fantascienza fatto e finito, pensa Sam, quando gli alieni hanno sterminato i terrestri prima di fregarsi il pianeta, e si salva solo un pugno di sopravvissuti che schiattano uno alla volta mentre qualcuno gli dice “andrà tutto bene”.

Chi cazzo se l’è inventata, questa? Uno che non è mai andato al cinema, sicuro, mugugna dalla prima volta che l’ha sentita.

Sam scaccia il pensiero, non gli piace fare il sopravvissuto, ed è sicuro che non piaccia nemmeno a suo fratello. Quella che non riesce a scacciare è l’inquietudine: sta uscendo da clandestino in un mondo dove vive da sempre, ma non lo riconosce più.

Non è certo zona di movida, i Ponti. Dopo la chiusura dei negozi diventa un dormitorio. Però, prima, macchine e puttane non mancavano mai di animare le strade; qualche alterco rendeva meno inquietante il silenzio e dava il via alle scommesse sull’accaduto, che avrebbero letto in Cronaca di Roma il giorno dopo. Adesso niente. Nisba. Manco un sospiro, manco un’anima persa.

Lui e Zek strisciano verso il quarto ponte lungo i muri se muri ci sono, corrono curvi e veloci come ratti in fuga quando sono allo scoperto, saettano sguardi nel vuoto per forza di abitudine, perché davvero non c’è nessuno, quelli che dovevano lavorare hanno lavorato e sono a cuccia, salvo gli sbirri che quelli non la smettono di lavorare mai.

Smozzicano frasi, schiacciati da quella specie di vuoto pneumatico dove sembra che tocchi imparare daccapo pure a respirare: ‘che cavolo è ’sta puzza’, ‘sono fiori, Zek’, ‘che roba, e che fine ha fatto l’odore di smog’, ‘attento che arriva una macchina’.

Il chiarore dei fari li schiaccia sotto un contrafforte del quinto ponte. Un furgone bianco passa in silenzio come uno spettro. Rallenta, accelera, si ferma, riparte.

– Si sarà perso – dice Zek, la voce coperta dal lamento di un’ambulanza che corre sulla Laurentina.

Sam si stringe nelle spalle e non risponde, il cuore ridotto a un pizzico. Le sirene gli fanno sempre un brutto effetto, e ultimamente ne sente troppe.

Finalmente il locale di Abbe.

– Azz – fa Zek.

– Ma che…? – sussurra Sam.

Il bar di Abbe non è buio come si aspettavano. La saracinesca è alzata e una luce filtra sotto la porta. Si avvicinano e vengono investiti da una zaffata: odore di stufato, e pomodoro, e cipolla.

– Che fanno lì dentro? Non dovrebbe essere tutto chiuso? – mormora Zek.

– Shhh. Attento.

– Cazzo. Quello è…

Zek e Sam si spalmano sul muro, a pochi metri dall’entrata della Vigor, che è chiusa serrata e non offre riparo alcuno dal maledetto lampeggiante blu che avanza.

La volante si ferma poco oltre il bar di Abbe. Dietro compare un furgone bianco, forse quello che sembrava sperduto.

Dalla volante scende un poliziotto giovane che zoppica un po’ e poi lui: Nick Badile. Ha la mascherina, ma la stazza di Nick chi la confonde?

Zek e Sam sacramentano a fior di labbra. Con Nick c’è sempre qualche grana. E se non c’è, ci mette niente, il viceispettore, a inventarsene una su due piedi.

Adesso avrebbe gioco facile. Sono allo scoperto, e se qualcuno guarda dalla loro parte sono fottuti: niente documenti, niente autocertificazione, e soprattutto nessun motivo urgente per trovarsi lì.

Per fortuna gli sbirri sembrano impegnati a fare altro. Confabulano attraverso la porta socchiusa del bar, fanno un cenno a qualcuno nel furgone.

Un uomo in tuta arancione apre il portello del mezzo, la porta del bar si schiude un po’ di più. Zek e Sam vedono due braccia scure e ossute che tendono un pacchetto, poi braccia bianche che fanno la stessa cosa. Abbe e Luz. L’uomo in arancione s’incolla un po’ di confezioni e le sistema nel furgone. Anche il poliziotto giovane dà una mano.

Cinque minuti. Dieci. Il passaggio di pacchi è lento e chissà quanto andrà avanti. Pure Nick si è messo a lavorare, perciò non se ne andrà finché non sarà finita.

– Qui ci facciamo mattina – si lamenta Zek.

– Non ti muovere. Se ci muoviamo ci tanano.

Il profumo di manzo attraversa la strada, arriva fino a loro e dà una sveglia allo stomaco. Sono sette giorni che vanno avanti a panini, pizza stantia e, quando gira di lusso, due uova al tegamino col pane vecchio. Lo conoscono bene, lo stufato di Abbe, roba che fa salivare i sassi.

Restano immobili cercando di zittire lo stomaco che gorgoglia. Che Nick li sgami, temono, è solo questione di tempo, ma essere sgamati per lo stomaco che protesta no, e che cavolo!

Lo vedono avvicinarsi alla volante. Zek e Sam smettono pure di respirare, ma il poliziotto si guarda la punta delle scarpe. Prende la radio che gracchia.

– Sì. Sì, siamo qui – dice. – Ci vorrà un po’, sono solo in due a cucinare, impacchettare e consegnare. Sì, certo. No, Fortuzzi è con me, dà una mano anche lui. Sì sì, è protetto, non ti preoccupare, mammina. No, stattene a casa, che c’hai tre figli. D’accordo. Fa’ un po’ come ti pare. Domani sera vieni tu, va bene. Tranquilla. ’Notte, Miriam.

– Era la sbirra – dice tra i denti Zek. – La Fantini.

– Sta’ fermo e zitto, cazzo. Vuoi che ci…

La voce arriva alle spalle come una pugnalata.

– Be’? Che diavolo ci fate voi due, qui?

Un sussulto, una bestemmia stretta fra i denti.

La voce e il movimento hanno attirato Nick e una torcia.

Beccati.

Inchiodati al muro dalla Maglite come il maledetto Coronacoso su un vetrino.

Anche l’altro poliziotto rallenta la consegna dei pacchetti e guarda il portone della Vigor.

Minny Morelli li osserva perplesso, anche lui in tuta arancione e mascherina. A Zek e Sam piace Minny, li allena proprio come Cristo comanda. Ma in quel momento lo riempirebbero volentieri di mazzate.

Nick Badile ghigna e si avvicina con il passo lento e pesante che usa per mettere paura a chi gli sta sulle scatole, un cenno di saluto a Minny.

– Guarda un po’ chi abbiamo qui – ghigna. – Nientemeno che i gemelli Ciullà.

– Eh, salve, viceispettore Castillo – fa Sam.

Zek e Sam si staccano dal muro e cercano di darsi un contegno.

– Mmh. Viceispettore Castillo, eh? Tu mi chiami così quando ti devi arruffianare. Ma stavolta non funziona. Che fate in giro?

– Ecco, veramente…

– Ce l’avete l’autocertificazione?

– E dove la prendiamo noi, l’autocertificazione? – fa Sam.

– Male, molto male.

– Balle, fratello – mugugna Zek. – Solita solfa, ci vuole fregare. Se non ce l’abbiamo noi ce l’hanno loro. Vero, Nick?

– Ma guarda, un delinquentello informato. I documenti, forza.

– Ma Nick, tu ci conosci benis…

– Niente modulo, niente documenti. Si mette male. Ce l’avete almeno un motivo serio per uscire?

– Noi, ecco… – arrotola Sam alla ricerca di qualcosa che gli risparmi un multone. Con gli alimentari chiusi, le farmacie serrate e manco un parente al mondo, non possono inventare nemmeno un mal di denti o un’urgenza familiare.

– Qui ci vuole un bel verbale. Vado a prendere…

– Sono con me – salta su Minny Morelli, che fino a quel momento se ne è stato zitto a guardare la scena.

Zek e Sam soffocano a malapena la sorpresa. Che invece dilaga sulla faccia di Nick.

– Ma davvero?

– Certo.

– Minny! – esclama Nick con gli occhi al quattordicesimo piano della torre di fronte e le braccia aperte. Conosce benissimo i rapporti che corrono tra i gemelli e il loro allenatore di boxe. Il vecchio Erminio Morelli si considera una specie di padre adottivo.

– Guarda, li ho chiamati io. C’è da dare una mano ad Abbe e Luz, che da soli non ce la fanno a cucinare, impacchettare e consegnare i pasti alla Protezione Civile. E questi due si stavano annoiando. Vero, ragazzi?

– Ve-verissimo. Due palle così, eh Zek?

– Non ci piove.

Minny fa segno ai gemelli e si avvia verso il bar. Arrivano i nostri, dice suonando la carica a pernacchie. Zek e Sam lo seguono, passando davanti a Nick a testa bassa per nascondere due sorrisetti che il viceispettore prenderebbe assai male.

Sentono il poliziotto biascicare fra i denti in ordine sparso: boyscout, le belle crocerossine, sbatto dentro, pure Minny, però, cazzo, ma porc…

L’ordine delle parole non importa, come le metti le metti, non ne esce niente di buono.

Ma tant’è. Stavolta l’hanno sfangata. Grazie a Minny.

E mica è male un saluto ad Abbe e Luz. Sono proprio giusti.

– Magari lavoriamo gratis una notte – fa Sam – però…

– … però sai quante bottigliette?

***

– Invece niente. Niente bottigliette – ricorda Sam mentre guarda le onde che gli vanno e vengono sui piedi. L’acqua è ancora fredda, a giugno, ma sembra che nessuno dei due ci faccia caso.

Non vedono il mare da quando avevano tredici anni. Che ci vanno a fare, due come loro? A nuotare? Come no. A stare immobili sulla sabbia e sotto il sole? Ma per piacere.

Però, appena finito l’obbligo dei domiciliari, è quello che hanno voluto fare. Tutti e due. Senza nemmeno mettersi d’accordo, hanno preso una metro, un trenino e un bus ed eccoli lì, con le mascherine e l’impossibilità di distanziamento sociale che fa storcere il naso alla gente finché non capisce che loro no, distanziarsi non possono proprio.

Calzoni rimboccati, piedi a mollo e occhi puntati sull’orizzonte libero, lontano, infinito.

All’inizio tutto quello spazio toglieva il fiato. Manco un muro, eccheccavolo, era troppo.

Troppa aria, troppo vuoto, troppa distanza.

Poi hanno ricominciato a respirare. Ad annusare quell’odore di acqua, sole e sale che non ricordavano più. A prendere respiri profondi, ogni respiro una goduria.

– No. Niente bottigliette e niente spaccio di Amuchina – sospira Zek. – Peccato, però, era un’idea coi controcazzi.

– È andata meglio così.

Zek ficca le mani nella sabbia bagnata e la stringe nel pugno.

– Meglio un cazzo. Ai Ponti ci guardano tutti strano.

– Te ne è mai fregato qualcosa di come ci guardano?

– Reputazione fottuta, Sam. Gli Angeli dei Ponti. Ma ti rendi conto? Gli Angeli dei Ponti. Tsè.

Sam ride di nascosto. Chissà chi se l’è inventato, quel nome. A lui piace e a Zek no, nemmeno un po’.

C’è di peggio, dice.

– Possibile che non ci arrivi? – continua a rampognare Zek. – Chi lo chiede un pestaggio agli Angeli dei Ponti, eh? Chi ce lo commissiona un furto? Chi ci compra l’erba?

La voce si era diffusa nel quartiere vuoto più veloce della pandemia: i Ciullà fanno i volontari con la Protezione Civile. I Ciullà cucinano e impacchettano i pasti per i senzatetto. I Ciullà donano alla comunità una grossa partita di Amuchina. La cosa era finita pure su una web radio e sul TG regionale.

Zek un po’ di ragione ce l’ha, pensa Sam, ma le cose erano andate per conto loro e nessuno ci aveva potuto fare niente. Perché quelle due cime di Ahioilnaso e Hulk, quelli che avrebbero dovuto procurare i compratori, avevano avuto la bella pensata di organizzare un incontro clandestino di boxe con due tipi poi risultati positivi, si erano beccati il Coronacoso e avevano boccheggiato per settimane prima di mandare al tappeto il fottuto virus.

Perciò, tanti saluti al momento magico. Niente file di acquirenti assatanati d’igiene, niente bottigliette e l’Amuchina regalata a Minny per lavare gli spogliatoi prima della riapertura della Vigor, che ormai i disinfettanti li producevano i profumieri famosi e la quotazione della merce era crollata di botto.

A lui mica è dispiaciuto aiutare Abbe e Luz tutti i pomeriggi e le sere. Niente più scassamento di palle, e Luz che li guardava – e ancora li guarda – come se fossero tipi giusti come lei. E le cene da Abbe che erano molto meglio dei panini e delle uova strapazzate che si preparano da sé. Senza allenamento, hanno messo pure su un paio di chili. Ma quello è successo a tutti. Intorno a loro, sulla spiaggia, la gente è mascherata, distanziata e rotonda. E trasognata, come se dovesse riabituarsi a guardare più in là di tre metri.

– Reputazione rovinata – continua a lamentarsi Zek.

Ma Sam è troppo felice di respirare e di guardare lontano. Lascia dire e lascia fare. Deve essere l’aria di mare che lo fa sentire così. In pace con cielo e terra, con la gente che li guarda troppo e con quelli che ghignano, e pure con suo fratello. Gli dispiace che anche per lui non sia così, perché è una bella sensazione.

– Non si può mai sapere, Zek. Com’è che dice sempre Abbe?

– Scialla.

– No, non è proprio così. Inshallah.

– E io che ho detto?

– Lasciamo perdere, va’.

Si avviano per tornare a casa, le facce bruciate dal sole e i piedi pieni di sabbia. Sam continua a tenere la testa girata verso il mare come se le onde gli avessero fatto un incantesimo.

– Ci torniamo qui, eh Zek? Ci torniamo presto.

– Certo. Come no. Tanto non avremo un cazzo da fare.

– Questo non si può dire. Non si può proprio dire – fa Sam, che qualche idea che gli frulla ce l’ha sempre.

Ciabattano sull’asfalto giusto in tempo per vedere lo 07 che lascia la loro fermata.

Lo insultano in coro.

Va tutto bene, ghigna fra sé Sam. Il Coronacoso non li ha cambiati, dopotutto. Sono sempre loro, sempre insieme. In disaccordo su tutto, d’accordo sui fondamentali.

Giusto così, due cuori e un vaffanculo.