I mostri di Istanbul

Per le feste natalizie abbiamo deciso di farvi un regalo: un racconto scritto a 14 mani!

Luigi Vergallo ha avuto l’idea, scelto il titolo e scritto l’incipit. A seguire ci saranno altri 6 autori Todaro.

Ognuno di loro avrà 3 giorni per scrivere la sua “puntata” e saprà cosa ha scritto chi lo precede esattamente quando lo saprete voi. Infatti i brani verranno pubblicati su FB (pagina Todaro e profili degli autori partecipanti).

Ecco il piano dell’opera:

15 dicembre – Luigi Vergallo

18 dicembre – Massimo Marcotullio

21 dicembre – Paolo Pedote

24 dicembre – Ugo Mazzotta

27/28 dicembre – Luca Bonzano

30 dicembre – Paola Sironi

2 gennaio – Alessandro Morbidelli (povero… toccherà a lui sbrogliare la matassa!).

Questa pagina sarà il punto di riferimento per chi si sarà perso le puntate su FB: il giorno prima della pubblicazione di ogni nuovo brano, sarà leggibile su questa pagina il brano precedente (e tutti gli altri).

Non sappiamo cosa verrà fuori, probabilmente un… mostro a sette teste!

In bocca al lupo a coloro che hanno aderito al progetto, ne avranno bisogno ;-)

e buona lettura a voi.

veronica todaro

I mostri di Istanbul

1a puntata – Luigi Vergallo

Nella mia vita ho visto molti mostri e paradossalmente, in quel momento, era proprio a quei mostri che mi stavo attaccando. A tutti i mostri che avevano attraversato la mia vita: gialli-verdi-rossi-arancioni, a tutti gli esseri mostruosi che avevo incontrato, che avevano provato ad uccidermi nel buio della mia stanzetta, che avevano provato a uccidermi quando mi trovavo in punizione in fondo al cortile, che avevano provato a uccidermi quando stavo in una buca scavata un metro sotto terra, già pronta, eventualmente, per conservarmi per sempre. A tutti i miei mostri mi stavo affidando, nella speranza che mi aiutassero, che mi mantenessero vivo.
Intanto, nocche e ginocchia si schiantavano sopra di me, mi spaccavano ossa, mi liberavano sangue dal naso, dalla fronte, dalle nocche e pure, a un certo punto, direttamente dalla bocca. Non ero propriamente innocente. Solo draghi e sirene mi facevano compagnia in quel vicolo dimenticato da dio, e dimenticato pure dai turchi. Non passava nessuno. Mi avevano ben trascinato e nascosto dietro l’università, dietro la mensa popolare, dietro ogni cosa che avrebbe potuto eventualmente salvarmi. Mi aggrappavo ai miei mostri e pensavo: hanno quasi finito, lo so che hanno quasi finito, ma le forze ormai mi mancavano e stavo per perdere i sensi. Li persi.
Era l’ottobre del 2017. Ufficialmente mi trovavo a Barcellona, invece giravo come uno scemo in Turchia. Mi ci avevano mandato perché mi pensavano furbo. Pioveva. Era buio. Sentivo l’acqua entrarmi nella manica della giacca, e dietro il colletto. Il mio abito nero era completamente inzuppato. Non sentivo dolore. Ero io stesso IL dolore. Perdevo copiosamente sangue dal lato destro della testa. Nulla di veramente grave, ma svenni di nuovo.
– Signore, signore, mi sente? Un uomo mi pizzicava sotto il mento. – L’ambulanza sta arrivando. – Persi i sensi per la terza volta.
Passai in ospedale 40 giorni. Fui interrogato dai turchi e pure da alcuni italiani. Poi uscii. La mia memoria non era migliorata, ma non era neanche peggiorata. Non era affiorato nulla di nuovo e allo stesso tempo non avevo perso le cose che già prima dell’“incidente” ero in grado di ricordare. Oggi posso dire che conosco i mostri di Istanbul, al cui cospetto erano scappati, uno dopo l’altro, anche tutti gli altri mostri della mia vita.
È finita così, avrebbe potuto finire in un modo diverso, chissà. Se il caso abbia un ruolo anche in certi destini, io proprio non ve lo so dire. So però raccontarvi di che colore sono gli occhi dei mostri: gli occhi dei mostri sono di tutti i colori, ma sono tutti freddi, tutti freddi come la peggior mattinata d’inverno.

2a puntata – Massimo Marcotullio

Fuori dall’ospedale, finalmente. I medici turchi erano riusciti in qualche modo a rimettermi in sesto, se non altro da un punto di vista fisico. Il difficile cominciava ora.
La donna mi attendeva ai piedi della scalinata. Sapevo che era lì per me, anche se non sono in grado di dire per quale motivo ne fossi convinto. Mi venne incontro, sulle labbra un sorriso sghembo. Se avessi avuto un po’ di buon senso me la sarei data a gambe, ma non ne avevo la forza. Quaranta giorni di analgesici, antibiotici, antidolorifici mi avevano svuotato di ogni energia, fisica e mentale. E, comunque, non avrei saputo dove diavolo andare.
La donna mi si avvicinò cautamente; io rimasi immobile e fissai quel suo volto affilato, quei suoi occhi scuri, due pozze profonde che sembravano assorbire la luce del giorno. Quando fu di fronte a me, allungò una mano e mi carezzò una guancia. Sentii sulla pelle il calore del suo palmo.
Da come si comportava, da come mi guardava, giunsi alla conclusione che avrei dovuto conoscerla. C’era familiarità, in quel gesto. Intimità. I suoi lineamenti, tuttavia, mi apparivano estranei. Ero quasi certo di non averla mia incontrata in vita mia.
Quasi, perché la mia memoria, nel corso delle ultime settimane trascorse sotto sedativi, aveva compiuto un bel po’ di salti mortali. E anche prima di subire il brutale pestaggio che mi aveva condotto in quell’ospedale, a essere sinceri, non era mai stata troppo affidabile.
La donna mi prese sottobraccio. Ci incamminammo a passo lento.
Davanti ai mei occhi si dispiegava l’incomparabile panorama del Corno d’Oro. I sottili minareti delle moschee – Agia Sophia, Mehmet Fatih, la Moschea Blu – perforavano il coperchio grigio delle nubi basse, distese sopra la città come un sudario funebre. Sul bordo della banchina, ci trovavamo come sospesi tra due mondi: alle spalle, il moderno quartiere di Galata; di fronte l’antica città, capitale di due imperi. L’aria, densa d’umidità, era resa ancor più greve dai sentori di salsedine, di marciume, di pesce guasto, provenienti dal braccio di mare che ci separava dal Corno d’Oro.
Ci mettemmo in coda e salimmo a bordo di uno dei tanti traghetti che facevano la spola tra la le due rive. Non trovammo posto a sedere. Mi appoggiai a uno dei montanti della cabina, per concedere un po’ di sollievo alla schiena. Dopo cinque settimane di ricovero, mi reggevo in piedi a malapena.
I mostri non se n’erano andati, li sentivo aggirarsi, in agguato, appena oltre l’orizzonte del mio campo visivo. Non sembrava, tuttavia, che nutrissero intenzioni aggressive. Mi stavano studiando, prendevano le misure e a me, in quel particolare momento, stava bene così, sebbene fossi consapevole che la resa dei conti era prossima. Sballottato da un’onda corta e ripida, mentre attraversavo quel piccolo braccio di mare, ero comunque lieto di aver ottenuto una breve dilazione.
La donna, dal momento del nostro incontro, non aveva pronunciato una sola parola e il mio atteggiamento non l’aveva di certo incoraggiata a intraprendere una conversazione. Non spettava a me compiere il primo passo.
Sbarcammo sulla banchina affollata.
Loro erano lì ad attenderci.

3a puntata  Paolo Pedote

– Lei sa che è ancora vivo per una sola ragione?
Mi stava parlando di spalle, gli altri lo circondavano inespressivi. L’accento non era italiano ma dell’Est. Aveva un cappotto nero, lungo. In realtà sembrava più interessato alle sue scarpe che a me. Sollevò la gamba destra, poi la sinistra guardando persino le suole. Disse qualcosa, questa volta in russo credo, e dal tono non poteva che essere un’imprecazione. Con uno schiocco di dita si fece passare un fazzoletto e diede una veloce lucidata al cuoio nero. Solo a questo punto si girò per guardarmi, la testa leggermente inclinata e un sorriso indulgente.
– Queste sono di Armani, capisci? Armani!… Moda italiana.
La donna fece un sospiro e si accese una sigaretta allontanandosi di pochi metri. Lui le disse qualcosa scocciato, sempre in russo, ma lei fece finta di nulla.
Si rivolse ancora a me. – Allora, dove sono?
Io continuavo a ignorare che cosa stesse accadendo, cosa cercasse e che cosa si fossero detti, però, dopo quel veloce scambio di parole, oltre al fatto che l’uomo indossasse un paio di mocassini firmati, un ricordo schizzò all’improvviso fuori dalla mia mente, quasi fosse un coniglio scappato dal cilindro di un mago: lei era la donna sui binari quella notte, alla stazione Termini di Roma. Ecco perché mi era così familiare!
Chiusi gli occhi, un istante: dal vetro, mentre il treno rallentava per fermarsi nel groviglio di metallo, mi guardava con gli occhi imploranti, le sue parole mute gridavano aiuto, le braccia mi volevano afferrare, lei che a stento riusciva a correre, io dentro la carrozza che le passavo accanto. Fuggiva da qualcuno che la rincorreva, li avevo visti per una frazione di secondo, da lontano. Sì, era proprio lei! Appena sceso dal treno, avevo chiesto aiuto, ma nessuno mi aveva dato retta, non c’era nessuno della polizia, non potevo perdere tempo, allora tornai indietro, ripercorsi alcune centinaia di metri nel buio, attraversando anch’io i binari. La vidi sparire, un’ombra risucchiata nel nulla dei cespugli, braccata proprio da quel gruppo di uomini che nel frattempo l’avevano raggiunta dalla strada.
In quell’istante, non avevo ancora idea se quello fosse il bandolo della matassa o la sua fine, ma il gelo che provai nel cuore davanti a quelle immagini nella mia testa era certamente molto più che un indizio. Anche perché ricordai improvvisamente cosa accadde dopo. Ed è con tutta probabilità la ragione per cui ero ancora vivo. Non mi restava quindi che bleffare, l’unica strada che avevo a disposizione per dare un bonus alla mia esistenza. Non ce n’erano altre.
– Se le dicessi che sono in mani sicure e che se mi succedesse qualcosa, potrebbe essere un guaio per tutti? – buttai lì cercando di nascondere il terrore.
L’uomo mise le mani in tasca, lo sguardo accigliato. Salì in macchina, una mercedes, con lui i suoi uomini. Sparirono nel giro di qualche secondo. La preghiera della sera che gli altoparlanti delle moschee diffondevano sembrava un lamento.
Mi avvicinai alla donna. – Tu rischi come me, vero?
Annuì, anche lei dunque aveva visto i mostri. E forse anche lei aveva cercato di sconfiggerli. Una lacrima bruciò sulla sua guancia. La spazzò via e mi spinse dentro un taxi.

4a puntata – Ugo Mazzotta

Avevamo attraversato un lungo ponte; la donna parlò in turco al tassista, che ci fermò in un viale largo e squallido. Scendemmo e lei si guardò intorno: nessuno ci aveva seguiti.
– Come ti chiami? – le chiesi.
Sembrò infastidita, forse dava per scontato che io dovessi conoscere il suo nome. O forse non le pareva un buon momento per le presentazioni.
– Ayla – tagliò corto. Mi prese per un braccio e mi guidò attraverso un dedalo di anonime vie affollate di gente e di botteghe finché sbucammo in una strada tranquilla ed elegante. Pensai che avesse voluto accertarsi che il tassista non avrebbe potuto riferire a nessuno la nostra destinazione. Salimmo una scala di pietra che si inoltrava sinuosa tra due palazzi. Un segnale turistico diceva “Galata Kulesi”; sui gradini due ragazze si facevano un selfie ridendo.
Superammo la scala e continuammo a salire, ora la folla era composta per lo più da turisti e i negozi erano piccole boutique multicolori. Dopo un’ultima svolta fummo ai piedi di un’alta torre di pietra, coronata da un porticato ad archi e più sopra da una sorta di cono che sembrava un cappello di Pinocchio. “Galata kulesi”, la Torre di Galata.
– Sono lassù – mormorò Ayla.
Una stretta scala addossata alle mura portava all’ingresso della torre; era affollata da turisti e la fila proseguiva per decine di metri nella strada. Ayla riprese a trascinarmi per un braccio. Dalla borsa a tracolla tirò fuori qualcosa che cominciò a mostrare ai turisti in coda.
– Polis, polis – la sua voce era stanca. La gente si scansò e in pochi momenti fummo all’ingresso della torre. Una porta metallica si spalancò lasciando uscire un gruppetto di persone; un ragazzo con un badge appuntato alla maglietta giallorossa del Galatasaray ci si parò davanti.
– Polis – ripeté Ayla, mostrando anche a lui quello che doveva essere un tesserino. Poi aggiunse qualche altra parola in turco.
Il ragazzo si fece da parte per lasciarci entrare e impedì ad altri di seguirci. Ayla fece sparire il tesserino nella borsa e rimase appoggiata alla parete dell’ascensore; lo sguardo rivolto al pavimento come a evitare qualunque contatto, la carezza di qualche ora prima dimenticata. Peccato, pensai: anche così, a capo chino – di lei riuscivo a scorgere solo il naso appena aquilino – era affascinante. Il mio imbarazzo fu interrotto dal riaprirsi della porta.
Ayla mi prese per mano e mi guidò attraverso un ristorante, fino alla balconata che girava intorno all’ultimo piano della torre, affacciata su uno dei panorami più belli che avessi mai visto.
Ero sopraffatto dalla vista dell’intera città: le acque del Bosforo e del Corno d’Oro, le cupole e i minareti di Sultanahmet, tutto era incendiato dal sole quasi all’orizzonte. Quando Ayla riprese a muoversi una vertigine mi fece barcollare: il corridoio intorno al ristorante era stretto e la balaustra troppo bassa per i miei gusti. Sotto, uno strapiombo di circa cinquanta metri.
D’un tratto Ayla lasciò la mia mano e dopo qualche passo si voltò verso di me, indicando un punto di quella che a me sembrava solo una parete di pietra.
Poi la sua espressione mutò, qualcosa le fece sbarrare gli occhi e tremare le labbra: i mostri dovevano essere alle mie spalle. Appoggiò le mani alla balaustra dietro di sé e con un unico salto si spinse fino a sedere sul sottile bordo. Rimase così per qualche istante, immobile, mentre la guardavo atterrito.
Prima di lasciarsi cadere mi fissò. Non c’era più terrore nei suoi occhi.

5a puntata – Luca Bonzano

La guardai sparire nel vuoto.
Sconvolto.
Dal suo gesto, certo, ma più che altro dai mostri alle mie spalle, da quel loro costante incedere col fiato sul mio collo senza lasciarmi tregua, di nuovo.
Sconvolto.
Dall’essermi reso conto di non aver posto ad Ayla nessuna delle domande che avrei dovuto: chi era lei? Cosa era successo alla stazione di Roma? E sapeva cosa ci facessi io, a Roma? E magari anche a Istambul?
Quelle domande taciute vennero spazzate via, ancor prima che lei toccasse terra, dal terrore di venire catturato e massacrato di nuovo. Non ucciso, perché l’incontro di prima aveva in qualche modo chiarito che non mi volevano morto. Per il momento.

Mi voltai.

L’uomo dell’Est mi fissava, stanco. Attorno a lui, i gregari fremevano in attesa di un ordine. Alla destra di quell’orda di mostri, un’anziana signora guardava allucinata nella mia direzione, la mano sulla bocca a ricacciare dentro il terrore che il suicidio di Ayla le aveva suscitato. E mi venne in mente così, all’improvviso, l’unica cosa da fare: sorprendere i miei mostri, confonderli. Sparigliare.

Mi misi a correre con tutte le poche energie che avevo. Diedi una testata secca sul naso della donna, rompendoglielo. Lei urlò, si portò dalla bocca la mano sul naso, cadde all’indietro. Servì allo scopo. I mostri rimasero attoniti e non ebbero la prontezza di reagire. Passai loro oltre a perdifiato e scesi dalla torre di Galata. Così, a caso, presi a ritroso in direzione di quell’acqua che tagliava in due la città, scissa, come scisso ero io tra quel presente di cui poco sapevo e il passato che non ricordavo.

Due domande, ripensando ad Ayla, mi pulsarono nel cervello insieme all’eccesso di sangue dovuto allo sforzo: perché aveva deciso di uccidersi, piuttosto che affrontare quei mostri che avevamo già incontrato e che, quell’incontro lo testimoniava, lei già conosceva e non le avevano in quel frangente incusso particolare timore? E inoltre, cosa voleva la polizia turca da me?

Svoltai in una via, poi in un’altra, sempre in direzione del Corno d’Oro. Sempre di corsa. Oltrepassai la vetrina di un caffè, quella di un alimentari, quella di una gioielleria. E all’improvviso, sul riverbero di quell’ultima vetrina, le connessioni delle mie sinapsi cominciarono a trasmettere informazioni pescate chissà dove, riflessioni multiple svariate e confuse.

Caleidoscopio. Io a quei mostri avevo rubato tre milioni di euro in diamanti! O forse in oppio, già che eravamo in Turchia? Comunque un tesoro. Seguivo le tracce dell’uomo dell’Est da tempo, attraverso l’Europa, perché… già, perché?

Caleidoscopio. L’avevo rintracciato a Roma, per vedermelo sparire sotto il naso. Per ritrovarlo avevo cercato indizi, corrotto persone, spaccato mascelle. Fino a individuarlo a Istambul. Dove lui, dopo che l’avevo derubato e nascosto il bottino (ma questo l’avevo in effetti già ricordato) mi aveva scoperto e massacrato di botte.

Caleidoscopio. Lo cercavo perché… perché… ero uno sbirro o qualcosa del genere! Crampo di fastidio, ma forte, di disgusto allo stomaco: all’idea di essere un poliziotto (o qualcosa del genere) oppure di essere un poliziotto (o qualcosa del genere) disonesto?

Caleidosco…

Urtai di sghembo un passante. Mi produssi in una mezza piroetta, un piede sul marciapiede, l’altro oltre il ciglio, sulla strada. Persi l’equilibrio e incespicai verso il centro della carreggiata.
Una macchina mi travolse.
Rimbalzai sul cofano e cascai a terra, di schiena, dolorante e stordito a fissare il cielo. Dopo un respiro profondo, voltai il capo, l’orecchio contro l’asfalto bollente, verso la direzione da cui ero venuto.
Dei mostri non c’era traccia.

6a puntata – Paola Sironi

Poi, davanti ai miei occhi il buio e la sensazione che la mia mente stesse fluttuando fuori dal corpo. La dolcezza del sonno che si portava via la mia coscienza. Forse, per sempre. Quasi, ci credetti quando aprii gli occhi, non so nemmeno io quanto tempo dopo e di nuovo non c’era nient’altro che buio. Ma l’illusione durò poco, il tempo di sentire la vista ferita da una luce al neon, che dopo qualche lungo secondo smise di vacillare e si fermò impietosa a illuminare una stanza spoglia, una rete di metallo e un materasso su cui ero adagiato, una piccola finestra sotto il soffitto chiusa da sbarre di ferro e una figura alta, segaligna, vestita di nero, che camminava verso di me minacciosa. Istintivamente portai un braccio davanti agli occhi, per proteggermi.
– Tranquillo. Il mio code name è FritzLand. – Il ragazzo con i lunghi dred rosso carota parlava la mia lingua. – Ho dovuto investirti con la mia auto, per poterti portare via al volo. Ho cercato di colpirti piano, spero di non averti rotto niente con quello che hai già passato.
I suoi occhi erano caldi, mentre i mostri hanno occhi glaciali. E poi, aveva detto code name: nella mia vita precedente, quella che ricordavo bene, quell’espressione era un caposaldo tra noi Truth Angels. Truth Angels, che nome ingenuo da dare a un’associazione clandestina, di sognatori internazionali che ancora credono di cambiare il mondo con il giornalismo d’inchiesta. Non siamo più nel ventesimo secolo, come avevo potuto credere in quell’idiozia? Anche se nascosti da pseudonimi nella nostra pagina web, anche se nessuno conosceva gli altri, anche se tutti vivevamo con un’altra identità e un lavoro di copertura e come antichi partigiani ci passavamo informazioni tramite appuntamenti fissati con messaggi cifrati, non poteva funzionare, davamo la caccia ai mostri che imperano su questa Terra e qualcuno di questi mostri prima o poi ci avrebbero trovato. E comunque io sentivo di non essere più degno di averne fatto parte. Dopo la prima aggressione subita ero smarrito, con il dubbio che ora mi perseguitava di essere passato dall’altra parte, quella degli avvoltoi.
– Ora non sono più un giornalista clandestino, ora sono un ladro. Ho rubato tre milioni – ribattei, atono.
– L’amnesia ti gioca brutti scherzi. Non li hai rubati, li stavi seguendo. Ricordi? Segui il denaro e lo troverai sporco del sangue versato per l’avidità di potere nascosta dietro la bella facciata di mostri insospettabili.
– I miei ricordi da troppo tempo sono offuscati.
– È perchè i mostri di Istanbul ti hanno trovato sul treno che ti portava a Roma all’appuntamento con Ayla. Allora eri ancora lucido e consapevole, ma loro ti hanno colpito alla testa e portato nel bagno per finirti lì. Qualcosa è andato storto e sono dovuti scappare. Però ti hanno lasciato una lesione celebrale irreversibile: si chiama amnesia anterograda. Ha lasciato intatti i tuoi ricordi precedenti al trauma cranico, ma ha compromesso i successivi. Eppure, quando hai ripreso i sensi e sei arrivato in stato di confusione mentale alla stazione Termini, hai visto i mostri che inseguivano Ayla e istintivamente hai percorso il binario dove lei scappava e ritrovato la borsa con la chiavetta usb che doveva consegnarti. Poi hai continuato il tuo lavoro, incalzato da una memoria frammentaria e sei venuto a cercare l’ultima prova fino a Istanbul quando te lo abbiamo chiesto. Ayla, interrogandoti all’ospedale, ha intuito cosa ti era successo e ha scoperto che avevi la chiave per incastrarli.
– Chiave?
– La password, è da qualche parte nella tua memoria. Ayla era riuscita a far credere ai mostri di essere loro complice, di lavorare per farti recuperare la password, ma qualcosa l’ha tradita e loro hanno capito che mentiva. Sono astuti. È terribile. – FritzLand chiuse gli occhi, mentre le labbra gli tremavano. – Ha preferito morire che finire nelle loro mani.

7a puntata finale – Alessandro Morbidelli

Oggi, a distanza di anni, considero Istanbul come una meta. Lì si sono incontrati i mostri di tutti i colori e i cacciatori di mostri che si credevano angeli. Tutti intorno a un unico grande tavolo a scommettere il futuro.
Da che parte stavo, io? Non lo ricordo. Forse ero quello che dava le carte, forse ero il banco, di sicuro uno che alla fine ha perso.
Con il tempo sono riuscito a collegare solo alcuni puntini, tipo quei giochi da Settimana Enigmistica, per abbozzare linee, mezze forme. Le verità, quelle nascoste tra le sillabe delle sciarade e nelle caselle dei cruciverba, sono rimaste un rebus: un attimo ecco la parola e subito dopo il numero.
Eppure allora ce l’avevo fatta a districarmi tra parole e numeri.
Il Verbo di Dio, valido per gli ortodossi, i cristiani e i musulmani a Santa Sofia, dove “sophia” significa “Sapienza”, erano codici scritti in un taccuino.

24Lm12, 22Ls03 e così via per 150 volte.

La password, come la chiamava FritzLand, per affacciarsi su un livello della rete dove sarebbe stato possibile stabilire ogni singolo colore dei mostri, a livello di dettaglio, sfumatura dopo sfumatura.
Non aveva voluto dirmi altro, sapeva già che il mio cervello era fottuto.

Rimaneva il fatto che io li avevo trovati.
Oppure me li avevano lasciati trovare?
Spaccarmi le ossa era stata una messinscena che dava valore al gioco?

Sono serviti giorni, ma alla fine ho ricordato dove avevo nascosto il taccuino.
Io e FritzLand siamo andati alla cisterna ipogea, la Yerebatan Sarnıcı.
Abbiamo percorso le passerelle in legno fino alla testa rovesciata della Medusa e poi oltre. Intorno a noi, i turisti scattavano foto. A ogni flash, l’immagine fulminea di un istante.
Da Roma a Istanbul, dai denti schiantati ai calci presi, dai tetti all’asfalto.
Piansi, mentre il ricordo dello slancio con cui avevo scagliato il taccuino chiuso nel nylon in una fessura d’ombra tra le alte colonne sotterranee, ad affondare nei pochi centimetri d’acqua che un tempo erano state la riserva idrica di Giustiniano, si sovrapponeva allo slancio con cui Ayla aveva deciso di sacrificarsi.
Il rosso delle cisterne sembrava l’Inferno. Ero convinto che anche lei vi fosse finita.
Affondammo nell’acqua fino al ginocchio. Avanzammo nel buio, supportati dalla luce del cellulare di FritzLand, urtando di tanto in tanto le carpe silenziose. Lo trovammo. Fu l’inizio della fine.

A volte mi capita di ricordare che usati quei codici i Thruth Angels siano scomparsi in modi orribili: FritzLand, ElTiburon, HellBeo, Nerone, PelagiaMilky, PokerTess, Desbrujà.
Morti ammazzati, uno dopo l’altro.
Forse abbandonai la rete proprio per questo motivo.
Nelle notti tormentate sogno spesso Ayla che mi sorride e cita Nietzsche: Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro.
Poi si lascia cadere all’indietro, in un vuoto che nasce dal nulla e che la divora.
Altre volte ho davanti agli occhi l’immagine di una vecchia signora che indossa un naso rosso, o forse è solo il sangue che le esce ancora dopo la mia testata. Siamo seduti a un bar. Mi offre una valigetta con tre milioni di euro dentro.

L’altra sera, mentre camminavo per la città fredda, mi sono fermato alla vetrina di un negozio di TV. Su uno schermo davano 007 Dalla Russia con amore, la scena in cui Sean Connery attraversa le cisterne di Istanbul con una barca. Sono scoppiato a ridere.

E rido ancora oggi, se ci ripenso.
Non riesco a smettere.
Però non riesco proprio a ricordare il perché.