Il continuatore di film ai tempi del Covid-19

 

Racconto parzialmente ispirato a fatti realmente accaduti

di Paola Sironi

Dobbiamo cambiare il nostro modo di lavorare, dicevano. E per Annalisa Consolati, ispettore di Polizia, era cambiato come mai se lo sarebbe aspettato. Ma non aveva dubbi di non essere sola in questo. In realtà non solo il modo di lavorare era cambiato. La quotidianità di chiunque lei conoscesse era stata scombinata al di là dell’immaginabile.

Annalisa sedeva sulla volante. Di fianco a lei c’era il suo collega Vilnev Rosaspina. Dentro l’abitacolo era tutto come sempre. Fuori invece il mondo si era svuotato e scorreva lentissimo. L’epoca del Covid-19 era riuscita a rallentare persino la frenesia tipica del suo collega quando era alla guida di un’automobile. Procedevano a passo d’uomo nella strada deserta.

Niente più omicidi su cui indagare. Il compito della squadra “Problem solving” della Questura di Milano era diventato controllare quei pochi individui che si aggiravano emaciati, con la testa bassa e il volto coperto da una mascherina. Decidere chi fermare, verificarne la residenza sui documenti, chiedere loro perché fossero usciti di casa, valutare le loro risposte, invitarli a evitare le uscite non necessarie o, nei peggiori dei casi, sottoporli a denuncia.

Solo due mesi prima sarebbe stato l’incipit di un romanzo di fantascienza. Eppure era tutto vero.

Quel giorno in via Conservatorio non c’era proprio nessuno. L’hashtag “Io resto a casa” sembrava vincente, almeno finché nello specchietto retrovisore, Annalisa non la vide.

Era proprio lei: la vegliarda in bicicletta.

Una persecuzione.

***

Annalisa arrivò a casa all’ora di cena. Parcheggiò, attraversò il cortile e girò la chiave nel portone d’ingresso del suo appartamento al piano terra. Quando spinse, la porta di casa cedette solo di un paio di centimetri al suo impulso. Qualcosa di pesante la bloccava in quella posizione. Incredula, suonò il campanello.

– Arrivo – squillò la voce di Minerva dall’interno. – Un attimo che sposto la cassettiera e ti faccio entrare.

L’ispettore Annalisa Consolati sentì la sua compagna che trafficava con qualcosa di pesante. La cassettiera, appunto, immaginò. Ma perché Minerva, nella sua infinita saggezza, aveva messo una cassettiera davanti alla porta di entrata? Troppe inspiegabili stranezze si stavano accumulando alle insolite usanze, imposte per contenere il contagio e già di per sé abbastanza inverosimili.

Quando finalmente riuscì a entrare, vide Minerva la saggia, con in mano due lembi del telo su cui aveva appoggiato la cassettiera in mogano dell’atrio, per poterla trascinare facilmente.

– Entra, che riattivo subito le misure di sicurezza – le disse solo la sua bella amante.

– Quali misure di sicurezza?

– Non so più come tenere Patrizio in casa – le spiegò Minerva la saggia, posizionando nuovamente la cassettiera davanti all’uscio. – Non deve farlo. Troppo pericoloso per lui che neanche ricorda di dover rispettare la distanza dagli altri. Ma appena abbasso la sorveglianza, evade. Oggi, mentre scartavetravo, è uscito alla chetichella.

– Per andare dove?

– Dove lo porta la fantasia. – Minerva si lasciò sfuggire un sorriso.

Annalisa, invece, per quanto avvezza all’eccentrica cocciutaggine di suo padre Patrizio, affetto da tempo da una grave forma di parafrenia senile che gli faceva perdere il senso della realtà, replicò piccata: – Non possiamo certo costruirci le barricate in casa per questo motivo.

– E che altro possiamo fare? Dopo due minuti che gli hai parlato, ha già dimenticato tutto e vaga con la mente in sogni a noi irraggiungibili.

L’ispettore Consolati si sentì come sempre impotente nella gestione di suo padre e la situazione peggiorò, quando entrò in cucina e vide lo stato di confusione in cui versava.

Minerva aveva voluto adeguarsi allo smart working e aveva traslocato dal laboratorio l’essenziale a poter svolgere la sua attività a domicilio. Però, essendo restauratrice di antiquariato, la sua attrezzatura non consisteva in un banale pc portatile. La stanza era affollata da sei sedie Luigi XVI accatastate di fianco a colle, vernici, pialle, corde di canapa, seghe, scalpelli, morsetti, grimaldelli e altri utensili, dei quali Annalisa neanche conosceva il nome. Tutto appoggiato a casaccio sul pavimento. Un vero e proprio flagello per una maniaca dell’ordine come l’ispettore Consolati.

Il coronavirus aggiungeva all’ansia del contagio, le insidie dello sconforto per un’esasperata convivenza forzata.

– Per fortuna che lo chiamano lavoro agile, non oso immaginare quello ridondante – commentò Annalisa demoralizzata.

– Dai, può nascere un fiore in ogni giardino[1]. Guarda qua: oggi ho trovato questo nella casetta della posta – cercò di consolarla Minerva la saggia, porgendole un biglietto.

Annalisa scorse velocemente con gli occhi il singolare messaggio, scritto a caratteri maiuscoli.

CARI AMICI, METTERE LA MASCHERINA E MOLTO IMPORTANTE, IO NE HO ALCUNE EXTRA, NE HO MESSE UN PO NELLE VOSTRE CASELLE POSTALI SPERO V SIA UTILE

FORZA ITALIA!

ANDRA TUTTO BENE

Dal Vostro vicino HUANG LI – piano 3

– Ma è una bufala?

– No. C’erano davvero allegate tre mascherine – rispose Minerva.

– Che bel gesto – apprezzò Annalisa, meno rigida. – Sono settimane che il signor Huang e la sua famiglia non si vedono neanche sul ballatoio. Quasi credevo si fossero dissolti. Nel bene e anche nel male in questi giorni succedono cose sorprendenti. Figurati che oggi ho rivisto la vegliarda in bicicletta.

– La signora che hai fermato due giorni fa per invitarla a stare a casa e che ti ha risposto di farti gli affari tuoi?

– Proprio lei – confermò l’ispettore Consolati. – Ci ha pure insultato perché eravamo vestiti in borghese. E come se già non bastasse a metterla in galera, ha avuto il coraggio di aggiungere che il poliziotto non è un mestiere da donne, per cui ero io che avrei dovuto restare a casa, mica lei.

– Questo particolare me lo avevi taciuto.

– Ti ho risparmiato un altro strazio, già sui social si vive il trionfo delle cazzate libere.

– In effetti, non sentivo un’idiozia simile dagli anni Ottanta.

– Tu sei nata nel Novanta.

– Appunto – Minerva rise, mostrando la sua splendida dentatura, impeccabilmente bianca.

– Fatto sta che sia ieri che oggi, la vecchiaccia era ancora in giro su due ruote. Si comporta in modo strano: affianca la nostra auto indifferente, prosegue per una ventina di metri e poi si ferma ad osservarci arcigna. – Annalisa ripescò l’immagine della “vegliarda in bicicletta”, soprannome scelto da Vilnev. Aveva l’impressione che durante quelle sue soste studiate, fissasse solo lei. Si sentiva addosso anche in quel momento quegli occhi liquidi e chiarissimi, che spuntavano sotto un cappello di cotone bianco.

– Sarà un’anziana che si sente sola. In questo periodo più che mai – ipotizzò Minerva la saggia. Ma l’ispettore Consolati non l’ascoltava più, era troppo concentrata a cercare nella sua memoria perché quel cappello di cotone bianco, articolo di modernariato imbarazzante, le sembrasse un déjà-vu.

***

– Scarabeo – sentenziò Minerva. E Scarabeo fu.

Dopo cena, erano tutti e tre seduti al tavolo sparecchiato della cucina. Minerva e Annalisa rispettavano scrupolosamente la distanza di un metro da Patrizio Consolati: che si ammalassero loro lo avevano messo in conto, ma lui andava protetto. Sulla tovaglia cerata era appoggiato il tabellone dello Scarabeo, ognuno aveva davanti il suo leggio con le lettere da utilizzare.

Annalisa non amava i giochi di società da quando aveva undici anni, e trovava quel presunto svago un’altra conseguenza nefasta della quarantena. Oltretutto, aveva provato a tenersi occupata sgranocchiando qualcosa di dolce per ridurre la noia, ma nella dispensa tutti i biscotti erano finiti. Eppure era certa di averne visto una scorta abbondante il giorno prima, anche se Minerva le aveva detto che si sbagliava. Da buon ispettore ipotizzò che la sua compagna le stesse nascondendo scene da attacchi irrefrenabili di gola e che alla fine della quarantena entrambi i suoi coinquilini avrebbero dovuto curarsi il diabete.

Anche se ogni tanto si distraeva in meditazioni insignificanti, Annalisa stava vincendo con facilità, i suoi avversari non erano competitivi. Minerva si gratificava nel riuscire a trovare vocaboli estrosi, incurante del maggior punteggio che avrebbe potuto ottenere da altre soluzioni. Mentre Patrizio come sempre era assente, immerso in fantasticherie che vagavano altrove e giocava in modo anarchico: alla fine buona parte del tempo veniva utilizzato a ricordargli le regole. Per questo il signor Consolati stupì le sue avversarie, quando come un giocatore incallito compose la parola fragileaggiungendo gile a fra e riuscendo così a combinare con gli incroci anche grata e eremo. Quarantasette punti in una sola mossa.

– Bravissimo – esclamò Annalisa, quasi commossa per quel trionfante ritorno alla realtà di suo padre.

– Mi è venuto spontaneo, Lisetta – le rispose compassato Patrizio. – Stavo pensando a Maggie e nessun aggettivo potrebbe descriverla meglio di fragile.

– Maggie, chi? – domandò Minerva, ben sapendo che con tutta probabilità si trattava di un personaggio immaginario.

– Hai ragione, Minnie cara. Mi sa che non vi ho mai parlato di lei. Era una mia collega quando vivevo a New York e lavoravo in un pub. Una brava ragazza. Faceva la barista come me, ma era molto più giovane. Era spigliata, gentile con tutti e nessuno di noi avrebbe potuto supporre che nascondesse un desolante segreto. – Patrizio si fermò per essere sicuro di aver catturato l’attenzione.

– Quale? – Annalisa si unì volentieri al diversivo. Era certa che suo padre non fosse mai stato non solo a New York, ma neanche in tutti gli altri posti dove millantava di aver vissuto. Erano i vaneggiamenti provocati dalla sua malattia mentale, quelli che lui elaborava suggestionato da un film visto in televisione, introducendo nella trama nuovi personaggi, se stesso per primo. La parte più avvincente delle sue fantasie era la capacità creativa di aggiungere alla sceneggiatura originale particolari inediti e finali alternativi. Non per nulla era soprannominato il continuatore di film. E in questa sua abilità riscuoteva anche un discreto successo tra chi lo conosceva.

– Un trauma subito durante l’infanzia che cercava di rimuovere a ogni costo, Lisetta – rispose il signor Consolati. – Non ne parlava con nessuno. Io l’ho scoperto per caso. Avevo sì notato che un uomo stazionava spesso davanti al pub, ma sembrava innocuo, pulito, vestito piuttosto bene. All’apparenza nessuno l’avrebbe scambiato per un senza tetto. E mai più avrei potuto pensare che quel derelitto fosse il padre di Maggie.

A queste parole, Annalisa e Minerva si scambiarono un’occhiata complice, per confermarsi che avevano entrambe identificato il film che stava ispirando Patrizio, facendogli credere di aver vissuto quelle circostanze di persona: Gli invisibili di Oren Moverman. Non era difficile, lo avevano guardato tutti e tre insieme una settimana prima e le parole del continuatore di film avevano prontamente rievocato nella loro mente la drammatica sequenza dove Richard Gere, nei panni del clochard George, fissa impotente la vetrina di un bar.

– Finché – proseguì il signor Consolati – una sera non mi accorsi che quell’uomo dava una busta a un cliente che stava per entrare nel locale, perché la recapitasse a Maggie. Vidi la ragazza aprire la busta e impallidire. Più tardi la sentii piangere nel retro. Non sapendo nulla sull’identità dello sconosciuto, temevo stesse minacciando la povera ragazza e decisi di stare all’erta per intervenire se fosse stato necessario. Così il giorno in cui George si decise finalmente a mettere piedi nel pub e ad avvicinare la figlia, mi appostai dove potevo sentire quello che si dicevano senza che loro potessero accorgersi di me.

Patrizio fece una pausa per sorseggiare un amaro. Annalisa si chiese come mai suo padre fosse arrivato così velocemente al finale del film, di solito si dilungava nel descriverne tutti passaggi. Il vantaggio però era che presto si sarebbe dedicato alla parte più interessante, quella in cui la sua creatività si scatenava a inventare come andava avanti la vita dei protagonisti dopo che la telecamera si era spenta.

– È stato così che ho scoperto qual era l’identità di quell’uomo – riprese il continuatore di film. – Da clandestino ascoltai un colloquio commuovente: il povero George aveva bisogno che sua figlia lo aiutasse con le pratiche necessarie a essere ammesso in un centro di accoglienza per senza tetto. Erano anni che non osava parlarle, la spiava di nascosto da quando l’aveva abbandonata alle cure della nonna materna. Maggie sembrava non riuscire a capire la tragedia che era incorsa nella vita del padre, dopo la morte di sua moglie. La depressione aveva portato George alla rovina, facendogli perdere prima il posto di lavoro, poi la casa. Da allora il pover’uomo aveva abitato presso amiche pietose che lo avevano ospitato, ma ormai non c’era più nessuna disposta a farlo. Maggie non riusciva a provarne pietà. Maggie ribatteva solo che un genitore avrebbe dovuto essere di supporto ai figli, non viceversa. Maggie si sentiva ferita dal dolore provato quando ancora bambina si era trovata sola, senza l’appoggio di suo padre che la consolasse della perdita della madre. Maggie ormai aveva solo rabbia dentro e io temetti che lasciasse andare via George dopo avergli rinfacciato la sua pusillanimità. Fu quello il momento in cui mi sentii in dovere di agire.

– Giusto – s’intromise Minerva, pregustandosi il sequel escogitato da Patrizio, che non si fece attendere.

– Sono uscito allo scoperto. Ho affiancato deciso Maggie e l’ho costretta a guardarmi negli occhi. Mi sono limitato a dirle: “A volte i fragili trovano qualcuno più fragile di loro, dove meno se lo aspettano e la necessità di aiutarli li rende forti”. Poi me ne sono andato. Beh, non ci crederete? Con la coda dell’occhio ho visto Maggie abbracciare George piangendo e so che da allora, almeno una volta alla settimana, si sono sempre rivisti per una passeggiata. – Il signor Consolati tacque e segnò noncurante i suoi punti sul blocchetto.

Annalisa rimase delusa. Il mitico continuatore di film si era limitato a completare l’ultima scena sfumata dal regista, che aveva voluto lasciare il finale aperto. E aveva banalmente risolto la trama come uno spettatore qualunque, privo dell’inesauribile inventiva di Patrizio.

Non capiva perché Minerva invece avesse l’aria appagata e gli occhi lucidi come se avesse ascoltato la più riuscita delle favole consolatorie. L’abuso di dolci stava decisamente agendo negativamente sulla psiche di suo padre e della sua compagna.

***

L’ispettore Annalisa Consolati e l’ispettore Caterina Cederna erano sedute dentro la volante parcheggiata in corso di Porta Romana a sorvegliare passanti che non c’erano. Non si vedeva anima viva da circa quaranta minuti.

– Non so tu, ma io non vedo l’ora che ci scappi una morte violenta. Non ne posso più di pattugliare strade deserte. Voglio tornare a cercare assassini – sentenziò Caterina.

– È difficile commettere omicidi di questi tempi. Rischi che ti fermino privo di autocertificazione, prima di riuscire a raggiungere il luogo del delitto – le replicò Annalisa. Ironia involontaria, avrebbe voluto essere una deduzione razionale.

– Il problema è che anche i delinquenti ormai sono degli smidollati senza un po’ d’ingegno.

L’ispettore Consolati non ebbe il tempo per capire se la sua collega stesse scherzando o fosse seria, perché le squillò il cellulare e premette il tasto del viva voce per ascoltare.

– Patrizio è scomparso – la investì la voce affannata di Minerva. – Non so come, è riuscito a uscire dalla finestra. Deve aver trovato le chiavi delle grate che avevo nascosto. O forse ne aveva una copia. Sono già passate due ore e non risponde al cellulare. Non era mai accaduto. Sono in giro a cercarlo. Vieni subito, ho paura che gli possa essere successo qualcosa di brutto.

– Arrivo subito – le rispose Annalisa chiudendo la comunicazione mentre Caterina, senza bisogno di sentire altro, non esitò a considerare un’urgenza la scomparsa di un anziano con problemi mentali, e collocò prontamente la sirena sul tetto dell’auto.

L’ispettore Consolati premeva sull’acceleratore come mai aveva fatto, dirigendosi verso il quartiere Niguarda dove abitava. L’ispettore Cederna intanto le aveva preso il cellulare e mentre ci digitava sopra, usava il suo per chiamare qualcuno.

– Berty, ti ricordi che mi devi un favore? – strillò Caterina dentro al telefono. – Ti leggo un numero di sim, devi rintracciarmi dove si trova in meno tempo che ci metteresti a farti una sega. Altrimenti, mando un’ambulanza a casa tua, così tutti i vicini pensano che ti sei infettato e non puoi uscire neanche sul balcone. Non deludermi.

– Con chi stavi parlando? – chiese Annalisa.

– Con un mio nuovo informatore: un hacker che soffre di eiaculazione precoce.

La risposta di Berty arrivò via WhatsApp quando erano in via Melchiorre Gioia e Caterina la lesse ad alta voce: – Localizzato in zona via Veglia, Piazzale Istria, Largo Desio.

Era un’area limitata e non erano lontane. L’ispettore Consolati continuò a guidare a velocità sostenuta fino a quando da viale Marche svoltò in via Veglia. A quel punto rallentò a venti chilometri all’ora e iniziò a scrutare il marciapiede destro, mentre Caterina controllava il sinistro. Il motore non prese bene quel brusco cambiamento di programma, o più probabilmente aveva già i suoi problemi. Fatto sta che tre spie sul cruscotto dell’auto si accesero in contemporanea, la volante iniziò a muoversi a scossoni per qualche decina di secondo, poi si fermò di colpo.

– Ma che fai? – s’infervorò l’ispettore Cederna.

– Si è spenta – le rispose Annalisa impotente, provando a girare la chiave di accensione più volte, senza mai la soddisfazione di sentire il rassicurante rumore dell’avviamento. Era troppo inquieta per provarci ancora, aprì la portiera e iniziò a correre verso nord. Caterina la imitò immediatamente, affiancandola senza problemi nonostante i tacchi. Erano quasi arrivate alla rotonda di piazza Caserta, quando sentirono urlare dall’alto: – Assassine! Assassine!

Le due poliziotte si bloccarono istintivamente, alzarono gli occhi e videro una signora ben nutrita che le apostrofava: – Runner maledetti, ci ucciderete tutti.

Ad Annalisa ricordò le vicine di casa di Anna Magnani nel film Bellissima: quelle che il marito della protagonista chiamava “balene”.

A Caterina invece non rievocò niente, reagì senza perdere tempo. Estrasse il distintivo, lo mostrò alla cicciona e replicò perentoria: – Polizia. Se la vedo un’altra volta mettere il naso fuori dalla finestra, la faccio arrestare per terrorismo psicologico.

Poi entrambe, senza bisogno di dirsi nulla, ripresero la corsa e cento metri dopo raggiunsero piazza Caserta, dove si divisero: l’ispettore Consolati proseguì dritta, l’ispettore Cederna girò in via Ala.

Annalisa correva, cercando di registrare tutto quello che poteva assomigliare a un essere vivente nello spiazzo aperto del parco giochi. Superata la piazza, girò lo sguardo dall’altra parte della strada e con sua sorpresa scorse quello che meno poteva aspettarsi: la vegliarda in bicicletta stazionava sotto la tettoia che proteggeva l’entrata della scuola elementare. La riconobbe immediatamente dal mezzo di trasporto appoggiato sui gradini e dal cappello. Rammentò all’improvviso dove aveva già visto quel copricapo: in una vecchia foto di famiglia. Si precipitò verso di lei. Ora aveva la certezza che la sagoma dell’uomo di spalle, che stava a pochi metri dall’anziana, appartenesse senza alcun ragionevole dubbio a Patrizio: era suo padre che portava quel cappello al mare, quando lei era bambina.

Li raggiunse, consumando tutto il fiato che le era rimasto nei polmoni. Ansimando sbraitò: – Papà, cosa cavolo ci fa qui?

– Non ti arrabbiare, Lisetta. Ti fa male. Stavo solo dando una mano alla signora Gilda – rispose candido il continuatore di film. – Sai, anni fa questa povera donna non ha più potuto permettersi un affitto con la sua misera pensione e adesso vive dove trova riparo. Io le faccio un po’ di compagnia e cerco di aiutarla. Per esempio, il signor Huang la settimana scorsa mi ha gentilmente dato la sua bicicletta perché gliela regalassi. Così può portare a termine la sua missione più facilmente.

Annalisa fissò la vegliarda in bicicletta che, seduta su tre coperte appoggiate in cima alla scala, nascondeva circospetta una scatola di biscotti dietro la schiena. Erano gli stessi biscotti dei quali lei abitualmente faceva scorta. Ma il fatto che Minerva sapesse molto di più di quanto le avesse fatto credere non le parve così importante, fece due respiri profondi per riprendersi e domandò come se fosse sensato: – Quale missione?

– Da una decina di giorni i morti chiamano la mia amica. Deve andare a raccogliere la loro voce prima che l’oblio se li porti via del tutto. I primi attimi dopo il decesso sono fondamentali, perché poi della loro anima non resta più nulla – le spiegò Patrizio.

La signora Gilda si sentì in dovere di completare: – Devo per forza spostarmi continuamente da un ospedale all’altro per ascoltare e memorizzare gli ultimi messaggi di chi abbandona la vita nella più completa solitudine, per colpa del Coronavirus. Scrivo tutto su questo blocchetto che porto sempre con me. Sono tutti pensieri per i loro parenti rimasti in vita, quelli che non hanno potuto riferirgli di persona. Solo che non so come portarglieli, non conosco gli indirizzi. Quando ti ho incontrato qualche giorno fa, poliziotta, i tratti del tuo viso mi hanno ricordato il mio amico Patrizio e ho pensato che forse eri buona come lui, forse avresti potuto aiutarmi. Ora che so che sei sua figlia, so anche che posso fidarmi di te. Tieni, questi sono i biglietti che ho segnato fino ad ora. Falli avere ai destinatari.

L’ispettore Consolati prese i foglietti che la vegliarda in bicicletta le porgeva. Disse solo: – Grazie, le prometto che me ne occuperò. Lei ha ragione: è nostro dovere cercare di consolare i familiari dei deceduti. E, per quanto sia possibile, in un modo o nell’altro lo faremo. Le do la mia parola.

La signora Gilda annuì.

– Andiamo adesso, per favore, papà. Minerva è preoccupata.

Era vero che a volte basta poco per finire una storia, convenne Annalisa. E non serve aggiungere altro per finire questa.

 

 

[1] Metafora ispirata alla canzone “A mano a mano” di Riccardo Cocciante / Rino Gaetano