Innocenti evasioni

Racconto di Massimo Marcotullio, ambientato ai tempi del Coronavirus

Uno spiraglio. Una piccola possibilità.

Capiterà anche a loro di distrarsi. O no?

È chiedere troppo? Non penso proprio; anzi, sono sicuro di essermelo meritato. Con l’attenzione, la cura dei dettagli, la meticolosità. La pazienza.

E la buona condotta, naturalmente. L’ho capito con un po’ di ritardo, ma – come si dice? – meglio tardi che mai.

I primi giorni ho dato in escandescenze. Ho esagerato, lo riconosco e, mentre lo facevo, ero consapevole che non sarebbe servito a niente. Solo che – cercate di capirmi – volevo gridare la mia rabbia, la mia frustrazione, la mia protesta. Volevo che il mondo intero riconoscesse l’ingiustizia che mi toccava subire.

Tutto inutile, naturalmente, perché a Loro non fregava niente di niente. E ci sono andati giù pesanti.

Loro. I miei carcerieri; i miei aguzzini.

Sempre con gli occhi puntati, sospettosi, a scrutare ogni mio gesto, a esaminare ogni mio comportamento.

Quattro metri per tre: cella di isolamento. Tutto il mio mondo si racchiude in questo spazio angusto, claustrofobico. Quattro passi avanti; quattro passi indietro.

Un giorno dopo l’altro, un giorno dopo l’altro, ho vissuto tutte le fasi della depressione. Alla rabbia impotente ha fatto seguito un lungo periodo di profonda prostrazione: me ne stavo sul letto, seduto o sdraiato, a fissare la parete di fronte o il soffitto sopra di me, la mente vacua, le membra svuotate di ogni energia… Mi fermo qui. Non ci provo neppure a descrivere ciò che si prova in certi momenti. Solo chi li ha vissuti in prima persona sa di cosa parlo.

Mi c’è voluto del tempo – un sacco di tempo – per racquistare cognizione di me stesso; per ricominciare a pensare.

Doveva per forza esserci un modo. C’è sempre un modo. Non esistono carceri inespugnabili.

E io il modo l’avrei trovato. Il tempo era l’unica cosa che non mi mancava.

Cominciai a studiare i Loro movimenti, le Loro abitudini. Mi annotai ogni dettaglio.

Qualcuno potrebbe obiettare che, se davvero sono innocente, dovrei confidare nella Giustizia e incaricare il mio avvocato di presentare istanza di revisione del processo, rivolgermi ai media perché si interessino al mio caso. Mi viene da ridere.

Avvocato? E chi l’ha mai visto un avvocato? Né, tantomeno, un processo. Mi hanno sbattuto tra queste quattro mura senza avvocati, né processi, perché questa non è una prigione come le altre.

No, non posso sperare in alcun un aiuto dall’esterno. Devo confidare solo in me stesso, nella mia astuzia, nella mia pazienza, nella mia capacità di cogliere al volo l’occasione buona. Una Loro distrazione.

Li osservo. Con la coda dell’occhio, naturalmente, perché so quanto sono diffidenti. Non posso mostrarmi impudente. Testa bassa, capo chino, mostro deferenza, ostento rassegnazione, simulo mansuetudine. Col passare dei giorni, noto che la stretta sorveglianza alla quale sono sottoposto si attenua. Piccole cose, dapprima, microscopici segnali di un incipiente lassismo. A fronte di queste minuscole concessioni, mi sforzo di apparire ancor più obbediente; anticipo i Loro ordini con zelo e sollecitudine.

Si sta aprendo una crepa nella Loro intransigenza; lo sento, lo vedo. Devo solo perseverare, indurli a credere che non darò Loro problemi. Devono convincersi da avermi domato, di avermi sottomesso. Solo così potrò sfruttare le Loro debolezze e aprirmi la strada verso la libertà.

L’attesa è lunga, snervante; commettere un errore, proprio ora che sono così vicino alla meta, sarebbe irreparabile. Non posso sbagliare. Avrò una sola possibilità. Solo una.

Vengono a portarmi il pasto, come ogni giorno a quest’ora. Occhi bassi, spalle accasciate, sguardo catatonico; fingo di non accorgermi neppure del Loro arrivo. Il vivandiere dice qualcosa, ma sono troppo concentrato a simulare per capire cosa dice. Poche parole, comunque.

Se ne va. Non odo il caratteristico scatto secco della serratura. Sollevo appena il capo; guardo di sottecchi: la porta è appena accostata. Hanno commesso un errore, finalmente. Il primo impulso è quello di alzarmi e uscire di corsa, ma so che sarebbe un passo falso. Devo aspettare, pazientare. È ora di pranzo; come mangio io, mangeranno pure Loro. E dopo pranzo, si sa, l’attenzione si allenta. Devo trovare dentro di me la forza di attendere, anche se ogni fibra del mio corpo vibra per l’impazienza. Ancora un po’, ancora un po’, ancora qualche minuto. Lasciamo che mangino, che bevano, che si rilassino.

Conto. Milleuno, milledue, milletre… fino a sessanta. Poi ricomincio: milleuno, milledue, milletre… Quanto ci possono mettere? Meglio essere prudenti; lasciarsi un margine.

Milleuno, milledue, milletre…

Non resisto più. La porta socchiusa è una sirena irresistibile. Devo andare. Adesso. O la va o la spacca.

Mi alzo, raggiungo la porta, dischiudo l’anta quel tanto che basta per scrutare nel corridoio. Nessuno. Vengo colto da un panico improvviso: e se fosse una trappola? E se Loro avessero lasciato la porta accostata a bella posta, per mettermi alla prova? Il dubbio mi attanaglia, infonde una pericolosa irresolutezza nella mie membra. Esito.

Sembra tutto tranquillo. Prendo un bel respiro ed esco, percorro il corridoio con passi felpati. Una porta accostata, accanto a quella d’ingresso. Avverto l’acciottolio delle stoviglie, qualche frase smozzicata, coperta dalla voce del televisore, sintonizzato su un notiziario. Le stoviglie vengono deposte nel lavello; lo capisco dal tintinnio che produce la ceramica quando urta il fondo metallico. Hanno finito di mangiare e si apprestano a rigovernare. Ciò significa che ho i minuti contati; presto verranno a ritirare i piatti nella mia cella.

Ora o mai più.

Lentamente, con estrema attenzione, aziono il chiavistello della porta blindata. La chiave produce un sommesso ticchettio di ingranaggi ben lubrificati, ma a me pare un frastuono assordante. La chiave giunge finalmente a fine corsa. Abbasso la maniglia, apro la porta. Le scale, l’androne, il portone di metallo.

Fuori!

L’aria fresca, la luce naturale. Non ci ero più abituato; quasi non me le ricordavo. Questa travolgente ondata di sensazioni mi inebria; vorrei mettermi a correre, a urlare di felicità.

La strada è deserta. Non c’è anima viva.

Mi avvio attraverso i vicoli in leggera discesa; raggiungo il lungofiume.

A destra o a sinistra? Meglio a destra, verso il ponte.

Mi affaccio alla balaustra di cemento; osservo la corrente lenta e maestosa che fluisce, indifferente agli affanni umani, gli uccelli fluviali che banchettano lungo le rive. Il sole mi scalda la fronte. Chiudo gli occhi, pervaso da una beatitudine ultraterrena.

Troppo concentrato nel godermi queste sensazioni inusitate non mi accorgo che una vettura si è accostata al marciapiede. Solo lo scatto della portiera che si apre e si chiude mi distoglie dalla contemplazione interiore che mi ha rapito. Apro gli occhi. Sulla fiancata dell’auto vedo una scritta, una scritta sciagurata: carabinieri.

Un uomo in divisa mi si fa incontro.

– Documenti, prego.

***

– Un matto, marescià, lo possino ammazzallo! Ma tutt’ammé me devono da capità? Un matto, je dico… me scusi, ma se sente male… li mortacci, pure er cellulare co’ ‘na tacca sola… sì, sì, come je dicevo, j’amo dovuto mollà du’ pizze, ma p’er bene suo. Se voleva buttà ar fiume, st’impunito; amo dovuto fermallo. Mo’ pare tranquillo ma nun se po’ mai sapé… E come no? Ha voija: sta sulla lista de quelli in quarantena… E che ne so? Sarà scappato da quarche parte… er numero de telefono de casa sua nun ce lo vole dà, o po’ pure esse che manco se lo ricorda. Pe’ fallo parlà, mica je potemo menà, anche se je confesso che me prudono ‘e mani… Mo’ co’ questo che ce famo? All’ospedale già ho chiamato: nun lo vojono e c’hanno pure raggione, co’ tutto quello che stanno a passà de questi tempi… Marescià, ce penzi lei; che ne so, chiami ‘a Prefettura, ‘a Protezione Civile, er Centro de Igiene Mentale, li Servizi Sociali der Commune, quarcuno… perché questo non ce lo potemo tené drento ‘a gazzella. È ‘nfetto: vabbé che me pagano li straordinari, però pe’ sti quattro sordi mica me vojo beccà er coronaviruse, je pare? Ma nun scherzamo propio!