Le paure di Pelagia di Ugo Mazzotta

Racconto di Ugo Mazzotta, ambientato ai tempi del Coronavirus.

— Gagliardi, io il tuo naso non lo voglio vedere.

Pelagia non aveva sviluppato una improvvisa rinofobia; era piuttosto l’agente Gagliardi che insisteva a tenere la mascherina chirurgica abbassata tanto da lasciare scoperto il naso e libere le narici.

— Dottoré, ma ‘sta cosa è fastidiosa! E poi se mi copro il naso mi si appannano i Ray Ban.

— A parte il fatto che qui in commissariato gli occhiali da sole fai il piacere di toglierli, non mi importa se e quanto di dà fastidio tenere a posto quella mascherina: ci sono già abbastanza virus in giro, non abbiamo bisogno dei tuoi.

Sbuffando, Gagliardi tirò su la mascherina a ricoprirsi il naso, e si tolse gli occhiali da sole, infilandone una stanghetta nel taschino della divisa. Mossa superflua, dal momento che meno di un minuto dopo, una volta seduto alla guida della volante, li inforcò nuovamente; Pelagia avrebbe con tutto il cuore voluto sedersi dietro ma ebbe paura di offenderlo e si sistemò sul sedile del passeggero restando incollata, più che appoggiata, allo sportello; e sperando che la distanza che li separava fosse almeno vicina al metro.

Il maledetto coronavirus aveva stravolto nel giro di pochi giorni la vita di chiunque sulla faccia della Terra, aveva attraversato città, regioni e stati con l’indifferente perniciosità di un tornado che lascia al suo passaggio solo macerie. E per quanto Pelagia sapesse che migliaia, milioni di persone in tutto il mondo stavano soffrendo – e molte morendo – non riusciva a non mettere il tutto su un piano personale, come se il SARS-CoV-2 fosse spuntato dal nulla in una regione cinese di cui prima non aveva mai sentito pronunciare il nome, al solo scopo di rovinarle l’esistenza.

Quello che l’aveva destabilizzata di più era stata la scoperta di essere molto più fragile di quanto pensasse. Se i primi giorni di epidemia li aveva affrontati con spavalderia, quasi prendendosi gioco dell’infezione e di chi la temeva, durante le ultime settimane si era resa conto che bastava un banale indolenzimento o la sensazione di essere un po’ accaldata a spingerla a infilarsi un termometro sotto un’ascella. E nei cinque minuti successivi i suoi pensieri precipitavano in un vortice di angosce da cui non le era facile riemergere, fino a sentirsi accapponare la pelle all’idea di essere trasportata in ospedale, che la sua vita potesse dipendere da una maschera a ossigeno o che un infermiere le chiedesse a chi voleva telefonare prima di essere anestetizzata e intubata.

***

Il suo grado di vice commissario le avrebbe risparmiato, di norma, la seccatura di passare qualche ora di pattuglia o a un posto di blocco; ma piuttosto che rimanere chiusa e sola nel suo ufficio, gli ordini erano che tutto il personale evitasse al massimo di incrociarsi nei corridoi o peggio di affollarsi in qualche stanza, così come sola e chiusa in casa rimaneva quando non era in servizio, preferiva accollarsi il sacrificio di sopportare l’irritante compagnia di Gagliardi e la sua insulsa conversazione, mentre controllavano che i napoletani uscissero di casa solo in caso di urgenza o comprovata necessità. Anche se dopo un po’ Pelagia finiva per rifugiarsi nella macchina di servizio e lasciava che a fare il cerbero pensasse lui.

Si erano appostati in piazza Medaglie d’Oro, una delle grandi piazze del Vomero, non molto distante dal loro piccolo commissariato; era una domenica mattina e Gagliardi aveva fermato poche automobili, i cui proprietari avevano tutti un buon motivo per trovarsi in giro nonostante i divieti. Anche i pedoni erano pochissimi, quasi tutti con le facce coperte dalle mascherine; nei giardinetti al centro della piazza alcuni cani, tenuti al guinzaglio dai rispettivi padroni, erano gli unici a fregarsene del distanziamento sociale e si annusavano in allegria musi e chiappe. Da quasi mezz’ora Pelagia ingannava il tempo seduta nella volante a cincischiare il suo cellulare.

— Dottoressa, venite un momento?

Il richiamo di Gagliardi la fece sobbalzare, si rese conto di essere stata sul punto di appisolarsi nell’abitacolo scaldato dal sole. Le capitava spesso in quel periodo di assopirsi nel mezzo della giornata, a volte anche in commissariato seduta alla sua scrivania; non c’era da meravigliarsene, dal momento che nelle ultime settimane aveva dormito malissimo. Il più delle volte, dopo aver rischiato di crollare addormentata sul divano davanti al televisore, saliva in camera da letto, nella torretta le cui finestre abbracciavano l’intera città, per ritrovarsi sveglia a combattere con pensieri angoscianti. Stare a rimuginare su cosa sarebbe successo se di colpo la tosse avesse cominciato a scuoterle i polmoni o se non fosse più stata capace di trovare un po’ d’aria in fondo a un respiro non era l’attività l’ideale per conciliare il sonno.

Si riscosse e si voltò verso Gagliardi, in piedi accanto a un furgoncino, a una ventina di metri di distanza. Quel poco di faccia lasciata scoperta da Ray Ban e mascherina tradiva la perplessità.

Pelagia si avvicinò.

— Che c’è Gaglià?

— C’è che ‘stu signore tene ‘nu supermarket dint’a machina.

“Stu signore” era un cinquantenne dall’aria smarrita. Pelagia, cercando di avvicinarglisi il meno possibile, sbirciò attraverso il finestrino abbassato. L’intero piano di carico era occupato da cassette della frutta di plastica e di legno che contenevano grosse buste per la spesa. A occhio e croce erano una trentina.

— Buongiorno. Non è un po’ troppa come spesa?

L’altro spalancò gli occhi.

— No, ma io ce lo stavo dicendo al vostro collega…

— Amico, la dottoressa è un commissario.

— Lascia stare Gagliardi. Sono il vice commissario Corsi. Cos’è che stavate dicendo all’agente?

— Che mica ho fatto la spesa per me! Questi pacchi sono per i poveri.

— E li avete comprati tutti voi?

— No, no dottoré. Io faccio le consegne per una organizzazione.

— Ricominciamo dal principio. Dove sta andando?

— Ve l’ho detto, devo consegnare questi pacchi. Mi hanno affittato il furgone per distribuire da mangiare a chi ha bisogno.

— Ce l’ha l’autocertificazione?

— Agli ordini, dottoré.

Un po’ rinfrancato l’uomo le porse dei fogli; Pelagia, maledicendo la sua sbadataggine per essere uscita dalla macchina senza i quanti chirurgici, esitò prima di prenderli ma non ebbe voglia di tornare indietro a infilarli. Si impose di stare attenta a non portare le mani al volto fino a che non se le fosse disinfettate con il gel che aveva nella borsa.

Il primo foglio era la dichiarazione che riportava le generalità dell’uomo e il motivo per cui si trovava in giro per la città; il secondo era un documento su carta intestata della Prefettura che autorizzava l’onlus Naples for Charity a organizzare una raccolta di cibo e generi di prima necessità nei supermercati della città e a distribuire quanto raccolto tra la popolazione più indigente. I due documenti messi insieme erano sufficienti a giustificare la presenza dell’uomo, e Pelagia li porse a Gagliardi.

— Va bene così, Gaglià. Identifica il signore, fagli firmare la certificazione e poi lascialo andare.  Grazie e buona giornata — aggiunse rivolta all’uomo nel furgoncino.

Era già quasi alla volante quando una voce beffarda le risuonò in testa. Suo padre, morto da anni, da vivo si era divertito così tanto a punzecchiarla e a sottolineare ogni sua défaillance che ancora adesso ogni volta che Pelagia si rendeva conto di aver commesso un errore o anche solo di essere sul punto di farlo, al suo subconscio attribuiva la voce di lui.

“Va bene che hai fretta di disinfettarti le mani e di rimetterti a dormire, ma non c’era qualcosa di strano in quelle buste?”

Decise di dar retta alla voce e tornò verso il retro del furgone. Aprì il portellone e capì che cosa il suo subconscio aveva notato quando, qualche minuto prima, aveva gettato un’occhiata distratta ai pacchi ammassati sul pianale: ogni sacchetto della spesa aveva una busta bianca per lettere spillata alla plastica. Le buste potevano ben contenere semplicemente un volantino della onlus ma il dettaglio l’aveva incuriosita; prese il pacco più vicino e aprì la busta, facendo attenzione a non lacerarla o staccarla. Dentro c’erano dieci banconote da cinquanta euro. Ripeté l’ispezione su altre quattro o cinque buste e il risultato fu lo stesso.

Si avvicinò nuovamente al finestrino del furgone. L’autista stava ancora aspettando che Gagliardi, appoggiato al cofano della volante, finisse di trascrivere le sue generalità.

— Non sta distribuendo solo da mangiare. In ognuno di quei pacchi ci sono cinquecento euro.

— Ah sì, me l’hanno detto.

— E non le sembra strano?

— Dottoré ma che vi devo dire, si vede che questa associazione se lo può permettere. A me mi pagano per distribuire i pacchi, vado lì, me li caricano nel furgone, mi danno l’elenco delle persone a cui devo portarli, arrivederci e grazie.

— Mi faccia vedere l’elenco.

L’altro gli porse un foglio col logo della onlus e con una lista di trenta nomi e indirizzi stampati al computer.

— Gagliardi fai una foto a questo elenco prima di far ripartire il signore.

Durante l’ultimo minuto era stata un paio di volte lì lì per grattarsi il naso e aveva davvero bisogno di disinfettarsi le mani.

***

Non c’era voluto molto, in commissariato, per raccogliere informazioni sul furgoncino benefattore. Il conducente era un certo Raimondo De Curtis, titolare di un’autorimessa, incensurato. L’onlus Naples for charity – Pelagia trovava il nome irritante – esisteva, regolarmente registrata da una settimana, ed era stata autorizzata dalla Prefettura a raccogliere cibo e altri beni essenziali, sia da donatori che acquistandoli in proprio, e distribuirli a chi, a causa dell’epidemia Covid-19, si trovasse in difficoltà. La sede dell’onlus era un negozio di elettrodomestici in periferia, a via Nazionale delle Puglie. Titolare del negozio e presidente dell’onlus erano la stessa persona, una donna: Armida Cosentino, di trentatré anni, incensurata. A questo punto però era intervenuto il commissario Del Vecchio. Quando Pelagia gli aveva riferito l’esito di quella piccola ricerca aveva aggrottato le sopracciglia.

— Questo è curioso. Armida Cosentino è la figlia di Silvestro Cosentino.

— E chi è?

Il commissario la guardò sornione.

— È uno che ha sempre puntato molto sul fatto che anche un buon funzionario di polizia come lei, sentendolo nominare, sarebbe caduto dalle nuvole.

Non era una spiegazione esauriente e Pelagia non fece niente per nasconderlo.

— Cosentino — continuò Del Vecchio — era un pregiudicato, anche se ha avuto solo un paio di condanne minori da giovane. Non è un personaggio famoso, ma per molti anni ha controllato quasi in esclusiva il mercato dei falsi a Napoli, e forse in tutta la Campania.

— Falsi? Di che genere?

— Tutti. Borse di marca, CD e DVD, abiti di firme importanti, software, detersivi, tutto. Tutto quello che si può pezzottare, come diciamo noi a Napoli, e viene venduto sia sulle bancarelle che in qualche negozio di lusso, quasi certamente è passato per le sue mani.

— E non l’hanno mai beccato per questo?

Del Vecchio fece spallucce.

— A parte questo Cosentino era una personalità, nella camorra. Pur senza aver mai avuto un suo vero esercito, senza essersi mai occupato di droga o altro, era diventato un personaggio di spicco. A modo suo, un boss. E soprattutto era molto rispettato da tutte le famiglie che contano, quelle che con la droga e il resto hanno a che fare eccome. Sembra che più di una volta abbia evitato guerre di camorra in città, convincendo i boss a mettersi d’accordo.

— Ma perché dice “era”?

— Perché l’unica volta che l’hanno arrestato per i suoi traffici, l’anno scorso, si è fatto pochi mesi di carcere e poi è uscito perché qualcuno in Procura aveva fatto qualche casino. E una volta tornato libero è scomparso dalla faccia della Terra.

— Latitante?

Di nuovo il commissario si strinse nelle spalle.

— Scomparso, nessuno sa dove sia. Almeno apparentemente nemmeno i suoi uomini, nemmeno sua figlia; qualcuno dice che è morto, qualcuno che è scappato chissà dove.

— E la figlia che ruolo aveva nei suoi traffici?

— Che si sappia, nessuno. Non è mai stata coinvolta in attività illecite, mai nemmeno una denuncia. Ha studiato, si è presa una laurea in America, non so in cosa. Ma a giudicare dall’indirizzo, deve renderle bene.

Pelagia si chinò a guardare il foglio su sui erano stati annotate le informazioni che riguardavano Naples for Charity: la presidentessa, dottoressa Armida Cosentino, abitava a Posillipo in Largo Donn’Anna al numero 9.

— Palazzo Donn’Anna — chiosò Del Vecchio.

***

Un edificio del Seicento tra i più riconoscibili della città, una mole barocca protesa nel mare e affacciata sul golfo di Napoli, divenuta un condominio esclusivo. A Pelagia la strada per l’appartamento della dottoressa Cosentino era stata indicata da una guardia privata, armata.

La porta si spalancò sulla figura slanciata della donna; dai lunghi capelli castani, quel che le si poteva vedere del viso, come capitava in quei tempi a gran parte della popolazione mondiale, erano gli occhi: di un verde scuro, e curiosi. Indossava una polo bianca e bermuda cachi, ai piedi infradito neri. Fece due passi indietro per permettere a Pelagia di entrare senza doverle passare accanto.

— Mi scuserà se mantengo la mascherina e i guanti — fu il suo benvenuto. Non era una domanda ma Pelagia si sentì in dovere di rispondere.

— Anzi, lo prendo come un atto di riguardo.

— Non sono positiva, comunque.

— Nemmeno io — rispose Pelagia, entrando nel breve corridoio. Nonostante fosse anche lei bardata con le protezioni d’obbligo, ebbe la fastidiosa sensazione di essere circondata da un alone di germi che stava per introdurre in una casa immacolata. Perché la casa, quel poco che Pelagia poteva vederne, immacolata lo era: non solo in quanto a pulizia ma perché l’arredamento e le pareti erano tutti nei toni del bianco e di un crema chiarissimo. Si ripromise di toccare il meno possibile.

La Cosentino le fece strada verso una porta finestra che dava su una terrazza in cotto, inondata dal sole.

— Credo che qui staremo bene.

Meglio, difficilmente si sarebbe potuto: la terrazza dava su un mare turchese deserto e appena mosso dal vento e la vista spaziava dal Vesuvio a Capri. Un angolo incantevole, perfetto anche per far sentire sull’interlocutrice del momento il peso della propria opulenza; e in più convenientemente ventilato, in tempi di pandemia. Sedettero su due poltroncine da spiaggia ben distanziate.

— Lei sa perché sono qui?

— Il suo agente mi ha detto che sarebbe venuta a parlarmi di quel furgone che è stato fermato ieri, ma non immagino perché un commissario di polizia debba scomodarsi per una cosa del genere. Tanto più che l’autista non è stato nemmeno multato, giustamente. Si tratta di una attività lecita e autorizzata. E anche meritoria, se permette.

— Fate molte di queste consegne?

— Noleggiamo due o tre furgoni al giorno, ognuno dei quali consegna circa trenta pacchi. Riusciamo a farlo quasi tutti i giorni. Si può dire che permettiamo di mangiare a molta gente che altrimenti avrebbe difficoltà a farlo.

— Appunto, la gente. Da chi avete i nominativi di queste persone?

La donna si strinse nelle spalle.

— Da diverse fonti. Parrocchie, associazioni di volontariato. Perché?

— Perché una delle cose che mi ha incuriosito è che nella lista che abbiamo trovato nel furgoncino c’era qualche pregiudicato, qualche famiglia con parenti in stato di detenzione… non tutti, eh. Anzi, erano in mezzo a tanta gente sicuramente per bene.

— Non chiediamo il certificato penale alle persone che aiutiamo.

— Però i pregiudicati nella lista o i detenuti alle cui famiglie portate da mangiare, non hanno avuto problemi per qualche furterello o altri reati di poco conto. Sono tutti legati alla criminalità organizzata. La camorra, insomma.

Pelagia fu certa che la Cosentino, al riparo della mascherina, stesse sorridendo.

— Davvero?

— Scommetto che se le chiedessi una copia di tutte le altre liste, quelle date a tutti i furgoni che mandate in giro ogni santo giorno, troverei la stessa cosa.

— È una richiesta ufficiale?

Pelagia scosse la testa.

— Quella la farà un magistrato, eventualmente.

Per quel che ne sapeva Pelagia in quel momento una pattuglia stava andando a via Nazionale delle Puglie a sequestrare le carte della onlus.

— Siamo a disposizione, consegneremo tutti i dati richiesti. Compresi gli indirizzi dei preti che ci hanno fornito un elenco delle persone indigenti delle rispettive parrocchie. Anche la Caritas ci ha dato una lista di persone, oltre che un aiuto a reperire il cibo.

— Ne sono certa. Ma le banconote da cinquanta euro che voi aggiungete ai pacchi non credo che provengano dalle parrocchie o dalla Caritas.

— Dottoressa, questa infezione a Napoli, più che in altri posti, sta facendo una strage. Non di contagiati, ma di lavoro, di fonti di reddito. Negozi chiusi, professionisti e artigiani senza clienti. E non sono solo quelli ufficiali, lo sa meglio di me che da noi tanta gente campa nel sommerso. Tutta gente che da un mese non può uscire di casa a guadagnarsi da vivere. Noi stiamo aiutando questa gente.

— Lei è una economista, vero? So che ha studiato all’estero.

— Non sono una economista in senso stretto. È vero, ho un double degree in economia, una laurea alla Luiss di Roma e una alla Stanford University in California. Mi occupo di consulenze aziendali, perlopiù di marketing.

— È un lavoro redditizio. — Pelagia fece un gesto con la mano come a sottolineare la bellezza da cui erano circondate.

— Sono anche molto brava.

Pelagia annuì.

— L’altra cosa che mi ha incuriosito è, come dire… la sua famiglia. Lei ha un padre ingombrante.

Armida Cosentino tacque per qualche istante. Quando riprese a parlare il suo tono era freddo.

— Qualis pater, talis filia. O, se preferisce, la mela non cade mai lontano dall’albero. Giusto?

Pelagia scrollò le spalle. Stava per rispondere ma fu preceduta dalla donna.

— Mi meraviglia che sia proprio lei a ragionare per luoghi comuni, questi luoghi comuni in particolare. La figlia del Maestro Guido Corsi, uno dei più grandi pittori italiani del Novecento, osannato in tutto il mondo, che fa la poliziotta.

Toccò a Pelagia di rispondere con freddezza.

— Ha fatto indagini su di me?

Stavolta che la Cosentino stesse sorridendo, quasi ridacchiando, era palese.

— Niente che non si possa trovare scrivendo il suo nome in Google, le assicuro.

— Sta di fatto che il suo, di padre, ha una posizione di spicco nella camorra. Il suo negozio di elettrodomestici, oltre che una copertura, era il centro delle sue attività ed è lo stesso negozio in cui ha sede la sua onlus.

Il sorriso era sparito dagli occhi di Armida Cosentino come portato via da un colpo di vento.

— Mio padre non è mai stato condannato per reati associativi. E il suo negozio vende elettrodomestici da decenni; ora che lui non c’è lo gestiscono persone di fiducia, ma appartiene a me.

— Esatto, ora lui non c’è. Lei sa dov’è? È in contatto con lui?

La donna scosse il capo.

— Poche settimane dopo la scarcerazione è scomparso e io non so dove sia — si schiarì la voce, che era diventata un sussurro. — Io credo… che non ci sia più.

Pelagia diffidava delle sensazioni epidermiche, delle intuizioni; ma ebbe la certezza che la donna fosse sincera e che Silvestro Cosentino fosse morto. O per lo meno, che lei lo credeva tale.

— Dottoressa, continuo a non capire cosa sia venuta a fare qui da me. Non ha accuse precise, altrimenti avrebbe un mandato, fa delle insinuazioni sul mio conto, a che pro?

— Volevo conoscerla. E non faccio insinuazioni: ho una mia idea precisa.

— Che io seguo le orme di mio padre.

— Non so fino a che punto. Ma so che quello che lei diceva prima è vero, questo virus ha massacrato l’economia di mezzo mondo e in particolare quella di Napoli, ci sono decine di migliaia di famiglie in ginocchio. E che la camorra abbia tutto l’interesse ad approfittarne, ad aiutare questa gente, ad accreditarsi come l’unica organizzazione in grado di portare aiuto al popolo, rapidamente e senza burocrazie, non è una mia ipotesi.

Aspettò una reazione da parte della Cosentino, ma l’altra rimase in silenzio.

— La sua onlus sta facendo questo: aiutando la gente, non solo col cibo ma anche con mazzette da cinquecento euro. Famiglie già legate alla camorra, che quell’aiuto se l’aspettano di diritto, e famiglie di gente perbene con l’acqua alla gola, che un domani potrebbero tornare utili, probabilmente inconsapevoli della provenienza dei vostri regali. Alla fine, è un’operazione di marketing.

La Cosentino si alzò, imitata da Pelagia.

— In America avrei già chiamato i miei avvocati per denunciare lei e la Polizia di Stato. Qui le dico solo: le sue supposizioni non provate. E non provabili.

La precedette all’interno della casa. Si trovarono in un enorme salone, anche questo arredato in una tonalità high key quasi accecante, interrotta solo da pochi sprazzi di colore. Uno di questi era una grande cornice appesa a una parete, che sulle prime a Pelagia parve un quadro astratto, striature e chiazze di colori violenti. La Cosentino rallentò nel passare davanti al quadro, voltandosi appena.

— Vede? Ero già un’ammiratrice di suo padre.

Pelagia sbarrò gli occhi. A essere incorniciata non era un quadro, ma una lunga tonaca bianca sporca di acrilici colorati. Una delle tante che suo padre aveva indossato mentre lavorava; alcune, ne era al corrente, erano state battute all’asta non diversamente dalle sue opere.

Armida Cosentino riprese a guidare Pelagia verso la porta di casa, l’aprì e la tenne spalancata.

Stavolta non rimase lontana e, prima che Pelagia potesse rendersene conto, le strinse la mano, trattenendola qualche istante prima di lasciarla andare e richiuderle l’uscio alle spalle.

Pelagia continuò a sentire la stretta forte, calda, attraverso il guanto chirurgico. Solo una volta arrivata alla sua macchina se lo sfilò con un gesto deciso, quasi stizzito, e lo gettò in un bidone dell’immondizia.