Scomparse di Filippo Fornari

Racconto di Filippo Fornari, ambientato ai tempi del Coronavirus.

     Enzino Marulli non si era mai preoccupato delle previsioni del tempo, anche se, per il suo lavoro di guardia giurata, passava buona parte delle giornate all’aperto, di fronte all’ingresso di una banca. Ora però, da quando era obbligato a rimanere chiuso in casa, seguiva attentamente l’evolversi delle perturbazioni e delle aree di alta pressione, in cerca di conferme che il cielo sarebbe stato limpido e la giornata soleggiata. Non che fosse un patito dell’abbronzatura, anzi, per quanto lo riguardava non gliene poteva importare di meno, ma il fatto è che lui conosceva un paio di natiche, e che natiche, alle quali la tintarella invece importava parecchio e che cercavano di capitalizzare ogni singolo raggio di sole che riuscisse a farsi strada, dal suo spicchio di cielo, tra gli alti palazzi di via Stromboli. E un cielo coperto, uno strato uniforme di cumulo-nembi, le faceva rintanare al chiuso per tutto il giorno.

     Sì, perché di fronte alla finestra del suo monolocale al terzo piano, che dava appunto su via Stromboli, c’era un balcone su cui qualcuno si sdraiava per abbronzarsi. Era adornato di gerani, di rose, di azalee e, soprattutto, di piante sempreverdi che facevano da barriera naturale agli sguardi curiosi dei dirimpettai; una barriera che però lasciava uno spiraglio di mezzo metro: in quel riquadro Enzino aveva seguito, come in una cornice di un’opera del Botticelli, il rifiorire di un sedere che, grazie al bel sole d’aprile, aveva ripreso colore, virando dal bianco latte al rosato, e ora stava assumendo un tono cannella chiaro. Uno spettacolo da risollevare lo spirito e pure qualcos’altro, anche se a Enzino, uomo di chiesa, osservante e praticante, provocava turbamenti e crisi di coscienza, perché avrebbe voluto ignorarlo ma non ci riusciva.

      E così si appostava dietro le tende per cercare di saperne di più, ma non era mai riuscito a cogliere nient’altro, a causa dei sempreverdi, che l’apparire di una chioma bionda e di un corpo notevolmente ricco di curve. Si era convinto che appartenesse alla signorina (o signora divorziata, o vedova inconsolabile, perché non gli risultava vivesse nessun altro nell’appartamento) che aveva visto uscire dal portone, col volto coperto da una mascherina azzurra che le nascondeva i lineamenti, per poi tornare carica di borse della Esselunga. Una bella figura slanciata, che camminava sciolta e sicura, con un movimento ondulatorio-sussultorio del lato B che catturava lo sguardo. Osservandole, aveva avuto la certezza che quelle sode rotondità fossero le medesime che si abbandonavano alla carezza del sole sul balcone di fronte.

      Ora però Enzino era preoccupato: da tre o quattro giorni, nonostante le belle giornate, il sedere non si era più visto, come pure non aveva più visto uscire, o rientrare, la sua bionda proprietaria. Inquietanti dubbi lo attanagliavano. Cosa le era successo? Forse era costretta a letto febbricitante in preda al coronavirus? Oppure si era trasferita e stava proseguendo il suo isolamento in un posto meno triste di Milano (o anche a Milano, ma in compagnia)? Più ci pensava, più i timori aumentavano: e se nell’appartamento si fosse introdotto un malintenzionato per rubare o per farle del male, un ladro o un ex marito\fidanzato, e l’avesse sequestrata e immobilizzata? E se invece fosse stata aggredita fuori casa, una sera che era uscita a fare spesa più tardi del solito e se ora giacesse riversa in un fossato (ma ci sono fossati a Milano?) o in un vicolo buio tra i bidoni dell’immondizia, o l’avessero scaraventata nei Navigli e il suo corpo fosse incastrato, fradicio e devastato, nella prima chiusa in direzione Pavia?

      Sì, doveva fare qualcosa, perlomeno segnalare la scomparsa al suo amico commissario Vittorio Musante per le opportune verifiche. Non aveva informazioni precise da fornirgli, solo l’indirizzo e il piano dell’abitazione, ma la Polizia interrogando portinaia e inquilini avrebbe potuto risalire alle sue generalità.

***

      Per Curzio Malanotte, chimico, partita IVA in attesa di tempi migliori, l’isolamento solitario era all’insegna di una frenetica attività sui social. Facebook, twitter, instagram, all’inizio aveva il suo bel da fare a stare dietro a tutto, poi non aveva retto il ritmo e ora si limitava a postare quotidianamente su fb le sue esternazioni. Ultimamente, poi, aveva avuto un’idea: data le incertezze sul futuro post virus, suo e dell’umanità in generale, perché non provare a immaginare come potesse essere il mondo una volta che la bufera covid-19 fosse passata, nell’ipotesi migliore e peggiore possibile? E così aveva iniziato a postare sulla sua pagina fb le Cronache del dopovirus, storielle del tipo:

Cronache del dopovirus

A – versione utopica; B – versione distopica

28 luglio 2020

Partenza per le vacanze

 A – “Cara, ho caricato tutti i bagagli, e aspetto solo voi per partire. Hai visto se i bambini sono pronti?”

“Sì, sì, ho controllato. Sono in ritardo perché stanno abbracciando gli amichetti dopo che nel giardino della Sami hanno bruciato tutte quelle orribili mascherine avanzate dall’emergenza. Peccato che te lo sei perso: hanno fatto un girotondo attorno al falò e hanno cantato ilcoccodrillocomefa, con il nonno che batteva il tempo con le mani. Ora arrivano: si devono rivestire, erano tutti in costume da bagno.”

“Certo che questi 10,000 euro a famiglia come contributo di solidarietà post virus che l’Europa ha stanziato per ogni famiglia italiana ci fanno comodo: ho prenotato una suite all’Excelsior Palace di Portofino, un paio di giorni di relax ce li meritiamo, dopo questi mesi terribili.”

“All’Excelsior? Spero che sia un hotel con almeno cinque stelle, se no i Rossi dicono che siamo dei micragnosi. Loro con il contributo della Merkel si sono fatti una settimana a Cala Volpe.”

 

B – “Cara, ho caricato le borse per la spesa, e aspetto solo voi per partire. Hai visto se i bambini sono pronti?”

“Poverini, sono un po’ in ritardo perché hanno ancora paura a uscire senza guanti e mascherine. Diamogli tempo, lo psicologo della Ausl dice che ci vorrà qualche mese perché si riabituino all’aria aperta. Stavano salutando su Skype i figli dei vicini, che anche loro non ce l’hanno ancora fatta a lasciare la cameretta.”

“Sì, va beh, ma diamoci una mossa. Un mio collega di cassa integrazione perpetua illimitata senza retribuzione mi ha detto che alla Coop sono arrivate le chiquita. Se ci spicciamo, magari ne è rimasta qualcuna. Avrei proprio voglia di una banana, dopo questi mesi terribili. E se la coda alla Coop non è troppo lunga, poi possiamo fare un salto alla Esselunga: pare che lì le patate e le cipolle ci siano tutti i giorni.”

“Fosse vero! Però prima portiamo un fiore al nonno. C’era ancora una rosa, nel vaso sul balcone.”


      Dopo che ne aveva pubblicate due o tre, una certa Susy Belladonna, un contatto che ai primi post aveva messo semplicemente un mi piace, aveva cominciato a scrivere commenti più diretti e personali, del tipo:

      “Questa mi è piaciuta molto. Si capisce che sei un animo sensibile” oppure “Mi hai fatto morire dal ridere con la versione A, poi con la B mi sono intristita. Ti sono grata dei bei momenti che mi doni.”

      Un po’ enfatica, forse, ma dando un’occhiata al suo profilo (capelli corvini, viso dolce, belle labbra, neri occhi ammiccanti) Curzio aveva visto che era un contatto che valeva la pena approfondire e si era messo a rispondere a tono. Così erano passati a conversare su messanger, lontano da occhi indiscreti, e le chat erano diventate più personali, e Susy gli aveva rivelato le sue pene. Per farla breve, era costretta a una convivenza forzata con un compagno che aveva intenzione di lasciare, ma con il quale ora si trovava obbligata a condividere il poco spazio di un bilocale, camera da letto compresa. O meglio, letto sottosopra compreso, perché pareva che il suddetto individuo la sottoponesse a sfrenate pratiche sessuali: “Sapessi cosa mi spinge a fare! Si direbbe che stiamo ripassando il kamasutra dalla prima all’ultima pagina!!!”, con tre esclamativi e una faccina che si teneva il viso tra le mani.

      Il suo ultimo messaggio era stato: “Curzio, non so proprio come andrà a finire questa storia.” E poi più nulla, per tre giorni, nonostante lui le avesse scritto ripetutamente “Susy, tutto bene? Fammi sapere, che mi preoccupo.”

      E in effetti preoccupato lo era: la coabitazione forzata aveva portato a un aumento dei casi di violenza domestica, e molte poverette erano in balia di compagni maneschi, senza possibilità di sottrarsi se non rivolgendosi alle forze dell’ordine. E a volte non bastava: proprio il giorno prima aveva letto dell’omicidio di una donna che aveva più volte denunciato, inutilmente, i maltrattamenti a cui era sottoposta.

     Doveva fare qualcosa, quantomeno segnalare la faccenda al suo amico commissario Vittorio Musante perché intervenisse al più presto. Non aveva informazioni precise da fornirgli, oltre al nome, se Susy Belladonna non era solo un nickname, e la città di residenza, Milano, ma la Polizia dal profilo fb avrebbe potuto risalire alle sue generalità.

***

      Umberto Rossi, ferroviere in pensione, sapeva di essere fortunato, in confronto ai suoi amici Curzio ed Enzino. Almeno lui le restrizioni le divideva con la moglie Arlyne, sposata di recente dopo una vita da lupo solitario, su e giù per l’Italia a condurre Pendolini e Frecce Rosse. Era contento del matrimonio, pur se talvolta i pensieri tornavano ai trascorsi non proprio da educanda della moglie, e sulla sua fedeltà avrebbe potuto mettere la mano sul fuoco, anche se i trent’anni di differenza d’età talvolta si facevano sentire.

      Sì, la mano sul fuoco… fino a qualche settimana prima, all’inizio delle misure restrittive in Lombardia. Perché in quei giorni Arlyne, che, cassiera alla Esselunga di via Washington, continuava a recarsi regolarmente al lavoro, aveva iniziato a parlargli del nuovo collega del magazzino. Un ragazzo nigeriano suo connazionale, anzi, addirittura della sua stessa città, Lagos, che era appena stato assunto ed era ancora un po’ spaesato a Milano dopo il suo peregrinare in vari centri di accoglienza per migranti. Thomas, così si chiamava, avrebbe avuto bisogno che qualcuno l’aiutasse a ambientarsi, anche se lo sport poteva rappresentare una soluzione, visto che prima del coronavirus varie squadre di Lega Pro l’avevano contattato e chiamato per dei provini. Poi si era tutto fermato, ma lui sentiva che il suo sogno di diventare un calciatore professionista in Italia avrebbe potuto avverarsi. E così ‘sto ragazzo era diventato il primo argomento di conversazione a cena: Thomas che le raccontava le barzellette in voga a Lagos, Thomas che amava la sua stessa musica, Thomas che, poverino, si era schiacciato una mano sul lavoro ed era in mutua per tre giorni, e via così. Thomas qui e Thomas là, Umberto non ne poteva più, ma non sapeva come dirlo alla moglie, la quale, Thomas a parte, peraltro ultimamente pareva diventata un’altra. Nervosa e irritabile come non era mai stata, lei così solare e pronta alle risate, cucinava e stirava di malavoglia, per non parlare delle pulizie domestiche, che tendeva a scaricare su Umberto: “E fai qualcosa, anziché ciondolare per casa tutto il giorno!” Di notte si rigirava nel letto e se lui si accostava lo allontanava con una gomitata o un calcio. Di fare all’amore non se ne parlava, e questo non era normale, significava che proprio non andava, perché lei si era sempre dimostrata piena di passione e di fantasia.

      Umberto non aveva dubbi: il problema era Thomas, e doveva fare qualcosa, per salvare il suo matrimonio e Arlyne stessa, che già in passato era stata in balia della mafia nigeriana. Ora che frequentava questo tizio il rischio stava tornando. Infatti, che si sapeva di lui? Che legami aveva con gli altri nigeriani di Milano, che magari obbligavano le connazionali a battere, e le ricattavano, dopo averle fatte venire clandestinamente in Italia? E la droga? Nei posti di Milano dove si spacciava erano in prima fila.

      E poi, sicuri che ‘sto Thomas del cazzo fosse in regola? Alla Esselunga avevano verificato che avesse i documenti a posto prima di assumerlo? Ma siamo sicuri che fosse stato assunto? Lui, Umberto, quando andava a fare spesa al super dove lavorava la moglie un commesso di colore tra gli scaffali non l’aveva mai visto.

     Sì, doveva fare qualcosa, perlomeno segnalare il nominativo al suo amico commissario Vittorio Musante per le opportune verifiche. Non aveva informazioni precise da fornirgli, il nome ma non il cognome, ma la Polizia, contattando la direzione della Esselunga, avrebbe potuto risalire alle sue generalità.

***

      Certi giorni, il commissario Musante desiderava essere pure lui in quarantena anziché regolarmente in Questura in via Fatebenefratelli o su una volante della Polizia. Perché le vie di Milano erano sì deserte e le persone chiuse in casa, ma il crimine non si prendeva pause e lui era sempre oberato di lavoro. In più, c’era chi contribuiva a fargli perdere del tempo prezioso che avrebbe volentieri dedicato ai casi seri, quelli da articoli sui giornali ed elogio dei superiori.

      E questo era stato appunto il giorno dei rompiballe, anche se i tre che gli avevano telefonato per segnalare situazioni meritevoli delle attenzioni della Polizia e sue in particolare erano suoi amici, con cui prima delle restrizioni si trovava spesso a cena e a giocare a carte, ai quali era legato anche se avevano il vizio di considerarsi paladini della giustizia e di mettere il naso nelle sue indagini, facendolo incazzare di brutto.

      Comunque nelle loro storie c’era un lato buffo, e per questo non vedeva l’ora di raccontarle, a modo suo, alla moglie Rosaria, donna dotata di una notevole dose di umorismo.

      E così, a cena…

     “Oggi tre cittadini volenterosi mi hanno segnalato dei casi interessanti…”

     “Vitto’, rilassati, almeno a casa. Cosa vuoi che m’importi dei tuoi omicidi, rapine e violenze. Mi bastano il martellamento quotidiano dei tigì sul numero di contagiati e di morti, e le interviste agli scienziati, uno più spocchioso dell’altro. La sera, vorrei cenare in pace e guardare un bel film in televisione.”

     “Sì, ma i cittadini sono i miei amici Curzio, Enzino e Umberto… non so se ‘sti tre si sono messi d’accordo per prendermi per il culo o se stanno uscendo fuori di testa per l’isolamento prolungato.”

     Rosaria aveva drizzato le orecchie, quando Vittorio raccontava degli amici finiva in genere che si facevano quattro risate. “Visto che non stai nella pelle, racconta.”

     “Ho già aperto i fascicoli d’inchiesta, anche se credo che aspetterò almeno un paio di giorni prima di coinvolgere il dr. Mazzetta, il PM… Fascicoli che potrei tutti e tre intitolare: segnalazione di scomparsa.”

     “Oddio! Chi è scomparso?”

     “Allora, caso numero uno, la segnalazione di Enzino: scomparsa di un culo.”  Pausa sapiente.” Caso numero due, Curzio: scomparsa di una casalinga irrequieta.” Altra pausa, Vittorio la tirava per le lunghe apposta. “Caso numero tre, Umberto: scomparsa della libidine. Sì, proprio così, Umberto mi segnala la scomparsa del desiderio sessuale nel suo matrimonio.”

     “Questa di Umberto non mi fa ridere, mi ricorda un altro matrimonio… ma di’ la verità: ti sei inventato tutto per vedere la faccia che avrei fatto?”

       “No, no, ti assicuro che non mi sono inventato nulla.”

      “E allora, se non è coperto da segreto istruttorio, ah ah, racconta.”

       E Vittorio aveva spiegato: Enzino era preoccupato perché non vedeva da tre giorni una signorina, o meglio il suo posteriore che si crogiolava nudo al sole sul balcone dirimpetto al suo; Curzio perché aveva visto interrompersi di colpo il suo flirt online con una signora costretta a una convivenza forzata con un lui molto esigente, anche se il plurale usato in una frase che gli aveva scritto-che Curzio gli aveva riportato tal quale: “Sembra che stiamo ripassando il kamasutra dalla prima all’ultima pagina!!!” poteva far sospettare un certo compiaciuto coinvolgimento della medesima nelle suddette pratiche indiane. Quanto a Umberto, pareva che la caduta di desiderio fosse dovuta a un baldo collega e conterraneo di Arlyne, sulla cui permanenza probabilmente irregolare in Italia occorreva indagare, visto la presenza così diffusa a Milano della mala nigeriana.

     “E tu, ce l’hai l’intenzione di indagare?”

      “Per ora non mi sembra sia necessario. E poi, chi se ne incarica? I miei uomini sono tutti strapresi, e già fanno gli straordinari, e io non ho certo il tempo per occuparmene personalmente. Conoscendo i tre soggetti, sta pur sicura che non se ne staranno con le mani in mano, ma indagheranno in proprio, e se ci saranno sviluppi seri mi avvertiranno.”

     E infatti…

***

      Enzino la sua indagine l’aveva iniziata acquistando al supermercato un rossetto di marca di un bel colore rosso mattone. Diciotto euro di investimento, ma era sicuro che ne valesse la pena, perché aveva avuto una grande idea, da mettere subito in pratica. Così, rientrando, si era fermato di fronte al portone di via Stromboli dirimpetto a casa sua e aveva suonato alla portineria.

      Dalla finestra del piano rialzato si era affacciata una signora, debitamente bardata, che gli aveva rivolto uno sguardo pieno di diffidenza e sospetto.

      “Mi scusi se la disturbo” aveva biascicato imbarazzato da dietro la mascherina, tenendosi a due metri di distanza, “volevo lasciarle questo rossetto da consegnare a una signorina che abita qui. Non so come si chiama, è alta, bionda e sui trent’anni.”

     “Qui non abita nessuna signorina così.” Anche il tono di voce era diffidente e sospettoso, “e lei, che cosa vuole? A quest’ora di solito i corrieri non fanno consegne.”

      “No, no, non sono un corriere. Abito qui di fronte. L’altro giorno ho incrociato la signorina che stava uscendo. Non si è accorta che prendendo il cellulare dalla borsetta le è caduto questo. Io me ne sono reso conto dopo, lei era già lontana. Ecco, volevo renderglielo, ma non la vedo da qualche giorno, forse si è ammalata o trasferita.” E aveva fatto un passo in avanti, allungando un braccio e tendendole il rossetto (privo di confezione, beninteso, mica era un pirla, aveva studiato bene la cosa). 

      La signora non pareva convinta. “Mah, se lo dice lei. Comunque qui nessuno si è ammalato, e nemmeno si è trasferito. E non ho ancora capito di che signorina si tratta.”

     “Glielo ho detto, quella alta e bionda, bel personale. Di solito è vestita con un giubbetto jeans e pantaloni molto attillati.” Cos’era, un lampo di comprensione quello che le aveva scorto negli occhi? C’era stato un momento di evidente indecisione, poi:

      “Su, dia qui. Se uno degli inquilini dovesse cercarlo glielo darò. Buongiorno.” E si era ritirata come una tartaruga nel suo guscio, chiudendogli la finestra in faccia.

      Enzino era rimasto lì come un ciula, poi aveva fatto dietrofront e aveva infilato il portone di casa. Un fallimento… anzi, un mezzo fallimento. Non aveva raccolta nessuna informazione utile all’ identificazione, ma almeno ora sapeva che nel palazzo non c’erano stati fatti di sangue, né contagi o traslochi. Meno male. In attesa che il suo amico Musante si facesse vivo con un qualche aggiornamento sulle indagini della Polizia, poteva tornare di vedetta e sperare di rivedere quelle magnifiche rotondità.

***

     Curzio aveva telefonato alla Polizia Postale, quella incaricata dei crimini legati al web, ma non era stato preso sul serio, e nemmeno l’avevano aiutato a scoprire se Susy Belladonna era un nome reale o fittizio. Aveva fatto indagini sui motori di ricerca, senza trovarne traccia. Pareva non esistesse da nessuna parte, escluso facebook.

     Era tornato a postare le sue Cronache del dopovirus, ma per altri due giorni Susy non si era fatta viva, e lui cominciava a disperare che l’avrebbe più risentita. Invece, finalmente, ecco un suo mi piace.

      Curzio aveva mandato subito un messaggino, visto che lei era on line: “Ciao, che piacere risentirti. Che fine avevi fatto?” al quale Susy aveva risposto in due secondi: “Per qualche giorno sono stata via da fb” “Allora tutto a posto? Pensavo avessi qualche problema.” “No, no, tutto OK. Sono stata molto “occupata.” Occupata scritto tra virgolette e seguito da due faccine, una che rideva e l’altra che faceva l’occhiolino. Curzio non sapeva come proseguire, aveva provveduto Susy a prendere l’iniziativa: “Se ti va, uno di questi giorni ci possiamo vedere.” Un tuffo al cuore: “Volentieri, ma come si fa? Io devo stare in casa, salvo autocertificazione per i soliti motivi.” “Ecco, appunto. Vicino a casa mia c’è una Esselunga, quella di via Washington. Se non abiti dall’altra parte di Milano, perché non vieni a fare la spesa qui? Tanto, chi ti controlla?” “Non è lontana, e poi, come faccio a dirti di no?” E via con le varie faccine birichine. “Allora puoi passare a casa mia, magari domani pomeriggio dopo le quattro?” “Va bene. Dove abiti?” Lei gli aveva dato un indirizzo, salutandolo con l’emoji del bacio. 

      Curzio avrebbe fatto i salti di gioia, se fosse stato un adolescente, ma si era contenuto, anche perché era stato colpito da un pensiero, un po’ tardivo in verità: e il compagno? Dov’era finito il mandrillo che le zompava sopra ogni momento? Non è che l’indomani, mentre si intratteneva con Susy nella posizione del missionario, se lo ritrovava dietro pronto a prendere posizione? E se appena varcato l’ingresso gli fosse balzato addosso allungandogli un sacco di mazzate?

      Doveva tenersi i suoi timori: che figura da cagasotto avrebbe fatto, se avesse mostrato di essere preoccupato per quell’altro?

***

      Umberto aveva seguito Arlyne quando era uscita per andare al lavoro, mantenendosi a distanza perché lei non potesse riconoscere l’auto. L’aveva vista fermarsi a un indirizzo che conosceva bene, quello dell’ambulatorio del suo medico curante dove l’aveva accompagnata varie volte. Ne era uscita dieci minuti dopo: aveva l’aria turbata, o era solo un’impressione di Umberto, che era posteggiato troppo lontano per poterlo affermare con sicurezza? Che c’era andata a fare? Per farsi prescrivere la pillola anticoncezionale, come aveva fatto in passato? Ma a che le serviva, se loro non avevano più rapporti? O meglio, loro due non avevano rapporti, ma per quanto riguardava lei?

      Arlyne si era poi diretta verso l’Esselunga, dove aveva parcheggiato sul retro negli spazi riservati ai dipendenti, ed era entrata nell’edificio dall’ingresso merci… non prima di aver dato il cinque a un ragazzo di colore alto e atletico, non esattamente lo stesso fisico di Umberto, che poteva vantare solo una certa somiglianza con Bruce Willis per via della pelata. Gli aveva detto qualcosa con un’emozione evidente anche a distanza, lui l’aveva abbracciata stretta.

     Umberto aveva visto abbastanza: in serata l’avrebbe obbligata a mettere le carte in tavola.

     Sconsolato, era ritornato a casa. Non gli restava che sperare che l’indagine di Musante lo liberasse del problema, rispedendo Thomas in Nigeria o mandandolo in prigione.

      Come se non bastasse il momentaccio, l’aveva fermato un’auto della polizia: sì, c’era l’autocertificazione per la spesa, ma dov’erano le borse con gli acquisti? Doveva ancora farla? Qual era il supermercato dove andava di solito? L’Esselunga di via Washington? Okay, ma lui veniva dalla direzione contraria: era evidente che stava gironzolando per la città, mettendo a rischio la salute di tutti i milanesi. Poche balle, 400 euro di multa e via andare.

***

      Enzino, vista la splendida giornata, si era armato di speranza e di un binocolo recuperato in cantina e alle dieci si era messo dietro a una tenda in osservazione, come il tenente Drogo nel Deserto dei tartari. Per un paio d’ore niente da segnalare, purtroppo. Poi, gli era scappato l’occhio sul balcone di fianco a quello dirimpetto, sul quale si intravedeva una certa attività oltre le piante e i fiori che lo abbellivano. Sì, un tizio sulla quarantina, fisico modellato dalla palestra, si aggirava nudo come se niente fosse. Un altro amante della tintarella. E che cavolo, un po’ di pudore! Enzino aveva distolto gli occhi, ed era tornato a concentrarsi sul suo balcone. Ancora niente.

      Invece, su quello di fianco il movimento si intensificava: era comparsa un’altra persona… cavolo! Una ragazza! Indossava un mini costume, che copriva il minimo. Capelli biondi, alta, seno perfetto. Porca miseria! Sembrava lei. Aveva scambiato un rapido bacio col tizio nudo e poi si era sdraiata su un telo da spiaggia, mettendosi a pancia in giù. Il costume era volata via. Come sbagliarsi? Le natiche erano proprio quelle: rotondità, pienezza, abbronzatura tonalità cannella, tutto corrispondeva, Enzino poteva riconoscerle tra mille. Ecco perché non c’era più sul suo balcone. Si era trasferita su quell’altro, in buona compagnia. Mannaggia! Minchia! Minchia e mannaggia! Enzino aveva provato una fitta di gelosia. Non che contasse di combinarci qualcosa, lui era troppo poco intraprendente con le donne, ma almeno aveva un sogno da coltivare. E invece così si poteva mettere il cuore in pace. Prima di abbandonare la postazione, aveva dato un’ultima fuggevole occhiata a quel bellissimo sedere. Un saluto, o meglio, un addio definitivo.

      Quasi intendesse rispondere al commiato, la ragazza si stava girando sulla schiena: un attimo, la fuggevole visione di un pendaglio… Enzino aveva strabuzzato gli occhi… ora si era girata del tutto… non c’erano più dubbi, quello che era apparso era un accessorio tipicamente maschile, di dimensioni ragguardevoli, oltretutto!

       De gustibus, aveva alzato le spalle un Enzino già più sereno. Non aveva mai studiato latino a scuola, ma sul significato di quella espressione non aveva alcun dubbio.

***

      Curzio, posteggiata l’auto, presa la scatola dei cioccolatini dal sedile posteriore e verificato che non ci fossero forze dell’ordine nei dintorni, si era avvicinato con fare spavaldo al portone indicatogli e aveva schiacciato il pulsante del citofono con la scritta “Susy”. Sull’ascensore che lo portava al quarto piano aveva già perso parte della spavalderia. A quel poco che gliene era rimasto si era aggrappato mentre suonava il campanello.

      “Curzio, eccoti qui!” Susy aveva fatto un passo indietro e l’aveva squadrato. “Mmmh, sei ancora un bell’uomo. Pensavo peggio, dalle foto su facebook.”

      Si era messa comoda, indossava una vestaglia semitrasparente aperta sul seno prosperoso. I capelli folti e corvini erano quelli della foto del profilo, quando al resto, meglio lasciar perdere: almeno dieci anni in più del dichiarato.

      “Ciao Susy, che piacere conoscerti di persona! Sei esattamente come mi aspettavo… una gran bella donna, ah ah.”

      “Entra, entra! Non stare impalato sulla porta.”

       Curzio esitava. Prima di fare il passo fatidico oltre la soglia si era guardato intorno sospettoso.

      “Ma… sei sola?”

       “Certo!”

       “Ma… il tuo compagno non c’è?”

       La risata era schietta e franca: “Ma quale compagno! Vivo sola, me lo sono inventato perché in questo modo acchiappo sempre: il maschio italiano ama atteggiarsi a paladino delle fanciulle indifese, tranne poi farsela addosso quando si tratta di intervenire. E tu, che fai?” Aveva puntato quei suoi intensi occhi neri in quelli di Curzio: “Entri o te la squagli? Per mettere le cose in chiaro: sono 100 euro per il servizio standard, se ti interessa un extra sono altri 50 euro.”

      Curzio le tese la scatola di cioccolatini: “Tieni, un omaggio sincero. E non ti chiederò neanche lo sconto.”

***

      Appena rientrata a casa, Arlyne aveva abbracciato stretto stretto Umberto e gli aveva stampato in bocca un bacio profondo e prolungato che l’aveva tramortito. E poi aveva sorriso, e riso e pianto insieme, e ora singhiozzava senza riuscire a spiaccicare una parola. Lui se ne stava in piedi imbambolato, con la rabbia accumulata nel corso della giornata che si squagliava come neve al sole, muto e boccheggiante come i cavedani che prima delle restrizioni andava a pescare in Trebbia.

      Aveva ripetuto due o tre volte “cosa?” cosa?” prima di capire, quando lei finalmente era riuscita a sillabare: “Sono incinta!”

      Si era seduto per paura che le gambe gli cedessero, e ora stava cercando di connettere, mentre Arlyne continuava: “Oggi ho avuto la conferma dalle analisi, dopo tre settimane di ritardo e un risultato incerto con il test in farmacia. Aspetto un bambino. Non ti ho telefonato per non rovinare l’effetto sorpresa.”

      Umberto si era messo una mano in tasca per cercare il pacchetto di sigarette, anche se erano almeno dieci anni che non fumava.

       Arlyne aveva ritrovato la parola, e non si fermava più: “Alla Esselunga lo sa solo Thomas. É felice per noi. Ha detto che per lui il bambino sarà come un fratellino. Ma io spero sia una bambina, e bisognerà prepararle la cameretta, comperare la culla e anche un lettino e un seggiolone e i pensili nuovi all’Ikea e imbiancare… così sarai impegnato, che sono settimane che te ne stai mogio mogio a ciondolare senza fare un tubo.”

 

Il continuatore di film ai tempi del Covid-19

 

Racconto parzialmente ispirato a fatti realmente accaduti

di Paola Sironi

Dobbiamo cambiare il nostro modo di lavorare, dicevano. E per Annalisa Consolati, ispettore di Polizia, era cambiato come mai se lo sarebbe aspettato. Ma non aveva dubbi di non essere sola in questo. In realtà non solo il modo di lavorare era cambiato. La quotidianità di chiunque lei conoscesse era stata scombinata al di là dell’immaginabile.

Annalisa sedeva sulla volante. Di fianco a lei c’era il suo collega Vilnev Rosaspina. Dentro l’abitacolo era tutto come sempre. Fuori invece il mondo si era svuotato e scorreva lentissimo. L’epoca del Covid-19 era riuscita a rallentare persino la frenesia tipica del suo collega quando era alla guida di un’automobile. Procedevano a passo d’uomo nella strada deserta.

Niente più omicidi su cui indagare. Il compito della squadra “Problem solving” della Questura di Milano era diventato controllare quei pochi individui che si aggiravano emaciati, con la testa bassa e il volto coperto da una mascherina. Decidere chi fermare, verificarne la residenza sui documenti, chiedere loro perché fossero usciti di casa, valutare le loro risposte, invitarli a evitare le uscite non necessarie o, nei peggiori dei casi, sottoporli a denuncia.

Solo due mesi prima sarebbe stato l’incipit di un romanzo di fantascienza. Eppure era tutto vero.

Quel giorno in via Conservatorio non c’era proprio nessuno. L’hashtag “Io resto a casa” sembrava vincente, almeno finché nello specchietto retrovisore, Annalisa non la vide.

Era proprio lei: la vegliarda in bicicletta.

Una persecuzione.

***

Annalisa arrivò a casa all’ora di cena. Parcheggiò, attraversò il cortile e girò la chiave nel portone d’ingresso del suo appartamento al piano terra. Quando spinse, la porta di casa cedette solo di un paio di centimetri al suo impulso. Qualcosa di pesante la bloccava in quella posizione. Incredula, suonò il campanello.

– Arrivo – squillò la voce di Minerva dall’interno. – Un attimo che sposto la cassettiera e ti faccio entrare.

L’ispettore Annalisa Consolati sentì la sua compagna che trafficava con qualcosa di pesante. La cassettiera, appunto, immaginò. Ma perché Minerva, nella sua infinita saggezza, aveva messo una cassettiera davanti alla porta di entrata? Troppe inspiegabili stranezze si stavano accumulando alle insolite usanze, imposte per contenere il contagio e già di per sé abbastanza inverosimili.

Quando finalmente riuscì a entrare, vide Minerva la saggia, con in mano due lembi del telo su cui aveva appoggiato la cassettiera in mogano dell’atrio, per poterla trascinare facilmente.

– Entra, che riattivo subito le misure di sicurezza – le disse solo la sua bella amante.

– Quali misure di sicurezza?

– Non so più come tenere Patrizio in casa – le spiegò Minerva la saggia, posizionando nuovamente la cassettiera davanti all’uscio. – Non deve farlo. Troppo pericoloso per lui che neanche ricorda di dover rispettare la distanza dagli altri. Ma appena abbasso la sorveglianza, evade. Oggi, mentre scartavetravo, è uscito alla chetichella.

– Per andare dove?

– Dove lo porta la fantasia. – Minerva si lasciò sfuggire un sorriso.

Annalisa, invece, per quanto avvezza all’eccentrica cocciutaggine di suo padre Patrizio, affetto da tempo da una grave forma di parafrenia senile che gli faceva perdere il senso della realtà, replicò piccata: – Non possiamo certo costruirci le barricate in casa per questo motivo.

– E che altro possiamo fare? Dopo due minuti che gli hai parlato, ha già dimenticato tutto e vaga con la mente in sogni a noi irraggiungibili.

L’ispettore Consolati si sentì come sempre impotente nella gestione di suo padre e la situazione peggiorò, quando entrò in cucina e vide lo stato di confusione in cui versava.

Minerva aveva voluto adeguarsi allo smart working e aveva traslocato dal laboratorio l’essenziale a poter svolgere la sua attività a domicilio. Però, essendo restauratrice di antiquariato, la sua attrezzatura non consisteva in un banale pc portatile. La stanza era affollata da sei sedie Luigi XVI accatastate di fianco a colle, vernici, pialle, corde di canapa, seghe, scalpelli, morsetti, grimaldelli e altri utensili, dei quali Annalisa neanche conosceva il nome. Tutto appoggiato a casaccio sul pavimento. Un vero e proprio flagello per una maniaca dell’ordine come l’ispettore Consolati.

Il coronavirus aggiungeva all’ansia del contagio, le insidie dello sconforto per un’esasperata convivenza forzata.

– Per fortuna che lo chiamano lavoro agile, non oso immaginare quello ridondante – commentò Annalisa demoralizzata.

– Dai, può nascere un fiore in ogni giardino[1]. Guarda qua: oggi ho trovato questo nella casetta della posta – cercò di consolarla Minerva la saggia, porgendole un biglietto.

Annalisa scorse velocemente con gli occhi il singolare messaggio, scritto a caratteri maiuscoli.

CARI AMICI, METTERE LA MASCHERINA E MOLTO IMPORTANTE, IO NE HO ALCUNE EXTRA, NE HO MESSE UN PO NELLE VOSTRE CASELLE POSTALI SPERO V SIA UTILE

FORZA ITALIA!

ANDRA TUTTO BENE

Dal Vostro vicino HUANG LI – piano 3

– Ma è una bufala?

– No. C’erano davvero allegate tre mascherine – rispose Minerva.

– Che bel gesto – apprezzò Annalisa, meno rigida. – Sono settimane che il signor Huang e la sua famiglia non si vedono neanche sul ballatoio. Quasi credevo si fossero dissolti. Nel bene e anche nel male in questi giorni succedono cose sorprendenti. Figurati che oggi ho rivisto la vegliarda in bicicletta.

– La signora che hai fermato due giorni fa per invitarla a stare a casa e che ti ha risposto di farti gli affari tuoi?

– Proprio lei – confermò l’ispettore Consolati. – Ci ha pure insultato perché eravamo vestiti in borghese. E come se già non bastasse a metterla in galera, ha avuto il coraggio di aggiungere che il poliziotto non è un mestiere da donne, per cui ero io che avrei dovuto restare a casa, mica lei.

– Questo particolare me lo avevi taciuto.

– Ti ho risparmiato un altro strazio, già sui social si vive il trionfo delle cazzate libere.

– In effetti, non sentivo un’idiozia simile dagli anni Ottanta.

– Tu sei nata nel Novanta.

– Appunto – Minerva rise, mostrando la sua splendida dentatura, impeccabilmente bianca.

– Fatto sta che sia ieri che oggi, la vecchiaccia era ancora in giro su due ruote. Si comporta in modo strano: affianca la nostra auto indifferente, prosegue per una ventina di metri e poi si ferma ad osservarci arcigna. – Annalisa ripescò l’immagine della “vegliarda in bicicletta”, soprannome scelto da Vilnev. Aveva l’impressione che durante quelle sue soste studiate, fissasse solo lei. Si sentiva addosso anche in quel momento quegli occhi liquidi e chiarissimi, che spuntavano sotto un cappello di cotone bianco.

– Sarà un’anziana che si sente sola. In questo periodo più che mai – ipotizzò Minerva la saggia. Ma l’ispettore Consolati non l’ascoltava più, era troppo concentrata a cercare nella sua memoria perché quel cappello di cotone bianco, articolo di modernariato imbarazzante, le sembrasse un déjà-vu.

***

– Scarabeo – sentenziò Minerva. E Scarabeo fu.

Dopo cena, erano tutti e tre seduti al tavolo sparecchiato della cucina. Minerva e Annalisa rispettavano scrupolosamente la distanza di un metro da Patrizio Consolati: che si ammalassero loro lo avevano messo in conto, ma lui andava protetto. Sulla tovaglia cerata era appoggiato il tabellone dello Scarabeo, ognuno aveva davanti il suo leggio con le lettere da utilizzare.

Annalisa non amava i giochi di società da quando aveva undici anni, e trovava quel presunto svago un’altra conseguenza nefasta della quarantena. Oltretutto, aveva provato a tenersi occupata sgranocchiando qualcosa di dolce per ridurre la noia, ma nella dispensa tutti i biscotti erano finiti. Eppure era certa di averne visto una scorta abbondante il giorno prima, anche se Minerva le aveva detto che si sbagliava. Da buon ispettore ipotizzò che la sua compagna le stesse nascondendo scene da attacchi irrefrenabili di gola e che alla fine della quarantena entrambi i suoi coinquilini avrebbero dovuto curarsi il diabete.

Anche se ogni tanto si distraeva in meditazioni insignificanti, Annalisa stava vincendo con facilità, i suoi avversari non erano competitivi. Minerva si gratificava nel riuscire a trovare vocaboli estrosi, incurante del maggior punteggio che avrebbe potuto ottenere da altre soluzioni. Mentre Patrizio come sempre era assente, immerso in fantasticherie che vagavano altrove e giocava in modo anarchico: alla fine buona parte del tempo veniva utilizzato a ricordargli le regole. Per questo il signor Consolati stupì le sue avversarie, quando come un giocatore incallito compose la parola fragileaggiungendo gile a fra e riuscendo così a combinare con gli incroci anche grata e eremo. Quarantasette punti in una sola mossa.

– Bravissimo – esclamò Annalisa, quasi commossa per quel trionfante ritorno alla realtà di suo padre.

– Mi è venuto spontaneo, Lisetta – le rispose compassato Patrizio. – Stavo pensando a Maggie e nessun aggettivo potrebbe descriverla meglio di fragile.

– Maggie, chi? – domandò Minerva, ben sapendo che con tutta probabilità si trattava di un personaggio immaginario.

– Hai ragione, Minnie cara. Mi sa che non vi ho mai parlato di lei. Era una mia collega quando vivevo a New York e lavoravo in un pub. Una brava ragazza. Faceva la barista come me, ma era molto più giovane. Era spigliata, gentile con tutti e nessuno di noi avrebbe potuto supporre che nascondesse un desolante segreto. – Patrizio si fermò per essere sicuro di aver catturato l’attenzione.

– Quale? – Annalisa si unì volentieri al diversivo. Era certa che suo padre non fosse mai stato non solo a New York, ma neanche in tutti gli altri posti dove millantava di aver vissuto. Erano i vaneggiamenti provocati dalla sua malattia mentale, quelli che lui elaborava suggestionato da un film visto in televisione, introducendo nella trama nuovi personaggi, se stesso per primo. La parte più avvincente delle sue fantasie era la capacità creativa di aggiungere alla sceneggiatura originale particolari inediti e finali alternativi. Non per nulla era soprannominato il continuatore di film. E in questa sua abilità riscuoteva anche un discreto successo tra chi lo conosceva.

– Un trauma subito durante l’infanzia che cercava di rimuovere a ogni costo, Lisetta – rispose il signor Consolati. – Non ne parlava con nessuno. Io l’ho scoperto per caso. Avevo sì notato che un uomo stazionava spesso davanti al pub, ma sembrava innocuo, pulito, vestito piuttosto bene. All’apparenza nessuno l’avrebbe scambiato per un senza tetto. E mai più avrei potuto pensare che quel derelitto fosse il padre di Maggie.

A queste parole, Annalisa e Minerva si scambiarono un’occhiata complice, per confermarsi che avevano entrambe identificato il film che stava ispirando Patrizio, facendogli credere di aver vissuto quelle circostanze di persona: Gli invisibili di Oren Moverman. Non era difficile, lo avevano guardato tutti e tre insieme una settimana prima e le parole del continuatore di film avevano prontamente rievocato nella loro mente la drammatica sequenza dove Richard Gere, nei panni del clochard George, fissa impotente la vetrina di un bar.

– Finché – proseguì il signor Consolati – una sera non mi accorsi che quell’uomo dava una busta a un cliente che stava per entrare nel locale, perché la recapitasse a Maggie. Vidi la ragazza aprire la busta e impallidire. Più tardi la sentii piangere nel retro. Non sapendo nulla sull’identità dello sconosciuto, temevo stesse minacciando la povera ragazza e decisi di stare all’erta per intervenire se fosse stato necessario. Così il giorno in cui George si decise finalmente a mettere piedi nel pub e ad avvicinare la figlia, mi appostai dove potevo sentire quello che si dicevano senza che loro potessero accorgersi di me.

Patrizio fece una pausa per sorseggiare un amaro. Annalisa si chiese come mai suo padre fosse arrivato così velocemente al finale del film, di solito si dilungava nel descriverne tutti passaggi. Il vantaggio però era che presto si sarebbe dedicato alla parte più interessante, quella in cui la sua creatività si scatenava a inventare come andava avanti la vita dei protagonisti dopo che la telecamera si era spenta.

– È stato così che ho scoperto qual era l’identità di quell’uomo – riprese il continuatore di film. – Da clandestino ascoltai un colloquio commuovente: il povero George aveva bisogno che sua figlia lo aiutasse con le pratiche necessarie a essere ammesso in un centro di accoglienza per senza tetto. Erano anni che non osava parlarle, la spiava di nascosto da quando l’aveva abbandonata alle cure della nonna materna. Maggie sembrava non riuscire a capire la tragedia che era incorsa nella vita del padre, dopo la morte di sua moglie. La depressione aveva portato George alla rovina, facendogli perdere prima il posto di lavoro, poi la casa. Da allora il pover’uomo aveva abitato presso amiche pietose che lo avevano ospitato, ma ormai non c’era più nessuna disposta a farlo. Maggie non riusciva a provarne pietà. Maggie ribatteva solo che un genitore avrebbe dovuto essere di supporto ai figli, non viceversa. Maggie si sentiva ferita dal dolore provato quando ancora bambina si era trovata sola, senza l’appoggio di suo padre che la consolasse della perdita della madre. Maggie ormai aveva solo rabbia dentro e io temetti che lasciasse andare via George dopo avergli rinfacciato la sua pusillanimità. Fu quello il momento in cui mi sentii in dovere di agire.

– Giusto – s’intromise Minerva, pregustandosi il sequel escogitato da Patrizio, che non si fece attendere.

– Sono uscito allo scoperto. Ho affiancato deciso Maggie e l’ho costretta a guardarmi negli occhi. Mi sono limitato a dirle: “A volte i fragili trovano qualcuno più fragile di loro, dove meno se lo aspettano e la necessità di aiutarli li rende forti”. Poi me ne sono andato. Beh, non ci crederete? Con la coda dell’occhio ho visto Maggie abbracciare George piangendo e so che da allora, almeno una volta alla settimana, si sono sempre rivisti per una passeggiata. – Il signor Consolati tacque e segnò noncurante i suoi punti sul blocchetto.

Annalisa rimase delusa. Il mitico continuatore di film si era limitato a completare l’ultima scena sfumata dal regista, che aveva voluto lasciare il finale aperto. E aveva banalmente risolto la trama come uno spettatore qualunque, privo dell’inesauribile inventiva di Patrizio.

Non capiva perché Minerva invece avesse l’aria appagata e gli occhi lucidi come se avesse ascoltato la più riuscita delle favole consolatorie. L’abuso di dolci stava decisamente agendo negativamente sulla psiche di suo padre e della sua compagna.

***

L’ispettore Annalisa Consolati e l’ispettore Caterina Cederna erano sedute dentro la volante parcheggiata in corso di Porta Romana a sorvegliare passanti che non c’erano. Non si vedeva anima viva da circa quaranta minuti.

– Non so tu, ma io non vedo l’ora che ci scappi una morte violenta. Non ne posso più di pattugliare strade deserte. Voglio tornare a cercare assassini – sentenziò Caterina.

– È difficile commettere omicidi di questi tempi. Rischi che ti fermino privo di autocertificazione, prima di riuscire a raggiungere il luogo del delitto – le replicò Annalisa. Ironia involontaria, avrebbe voluto essere una deduzione razionale.

– Il problema è che anche i delinquenti ormai sono degli smidollati senza un po’ d’ingegno.

L’ispettore Consolati non ebbe il tempo per capire se la sua collega stesse scherzando o fosse seria, perché le squillò il cellulare e premette il tasto del viva voce per ascoltare.

– Patrizio è scomparso – la investì la voce affannata di Minerva. – Non so come, è riuscito a uscire dalla finestra. Deve aver trovato le chiavi delle grate che avevo nascosto. O forse ne aveva una copia. Sono già passate due ore e non risponde al cellulare. Non era mai accaduto. Sono in giro a cercarlo. Vieni subito, ho paura che gli possa essere successo qualcosa di brutto.

– Arrivo subito – le rispose Annalisa chiudendo la comunicazione mentre Caterina, senza bisogno di sentire altro, non esitò a considerare un’urgenza la scomparsa di un anziano con problemi mentali, e collocò prontamente la sirena sul tetto dell’auto.

L’ispettore Consolati premeva sull’acceleratore come mai aveva fatto, dirigendosi verso il quartiere Niguarda dove abitava. L’ispettore Cederna intanto le aveva preso il cellulare e mentre ci digitava sopra, usava il suo per chiamare qualcuno.

– Berty, ti ricordi che mi devi un favore? – strillò Caterina dentro al telefono. – Ti leggo un numero di sim, devi rintracciarmi dove si trova in meno tempo che ci metteresti a farti una sega. Altrimenti, mando un’ambulanza a casa tua, così tutti i vicini pensano che ti sei infettato e non puoi uscire neanche sul balcone. Non deludermi.

– Con chi stavi parlando? – chiese Annalisa.

– Con un mio nuovo informatore: un hacker che soffre di eiaculazione precoce.

La risposta di Berty arrivò via WhatsApp quando erano in via Melchiorre Gioia e Caterina la lesse ad alta voce: – Localizzato in zona via Veglia, Piazzale Istria, Largo Desio.

Era un’area limitata e non erano lontane. L’ispettore Consolati continuò a guidare a velocità sostenuta fino a quando da viale Marche svoltò in via Veglia. A quel punto rallentò a venti chilometri all’ora e iniziò a scrutare il marciapiede destro, mentre Caterina controllava il sinistro. Il motore non prese bene quel brusco cambiamento di programma, o più probabilmente aveva già i suoi problemi. Fatto sta che tre spie sul cruscotto dell’auto si accesero in contemporanea, la volante iniziò a muoversi a scossoni per qualche decina di secondo, poi si fermò di colpo.

– Ma che fai? – s’infervorò l’ispettore Cederna.

– Si è spenta – le rispose Annalisa impotente, provando a girare la chiave di accensione più volte, senza mai la soddisfazione di sentire il rassicurante rumore dell’avviamento. Era troppo inquieta per provarci ancora, aprì la portiera e iniziò a correre verso nord. Caterina la imitò immediatamente, affiancandola senza problemi nonostante i tacchi. Erano quasi arrivate alla rotonda di piazza Caserta, quando sentirono urlare dall’alto: – Assassine! Assassine!

Le due poliziotte si bloccarono istintivamente, alzarono gli occhi e videro una signora ben nutrita che le apostrofava: – Runner maledetti, ci ucciderete tutti.

Ad Annalisa ricordò le vicine di casa di Anna Magnani nel film Bellissima: quelle che il marito della protagonista chiamava “balene”.

A Caterina invece non rievocò niente, reagì senza perdere tempo. Estrasse il distintivo, lo mostrò alla cicciona e replicò perentoria: – Polizia. Se la vedo un’altra volta mettere il naso fuori dalla finestra, la faccio arrestare per terrorismo psicologico.

Poi entrambe, senza bisogno di dirsi nulla, ripresero la corsa e cento metri dopo raggiunsero piazza Caserta, dove si divisero: l’ispettore Consolati proseguì dritta, l’ispettore Cederna girò in via Ala.

Annalisa correva, cercando di registrare tutto quello che poteva assomigliare a un essere vivente nello spiazzo aperto del parco giochi. Superata la piazza, girò lo sguardo dall’altra parte della strada e con sua sorpresa scorse quello che meno poteva aspettarsi: la vegliarda in bicicletta stazionava sotto la tettoia che proteggeva l’entrata della scuola elementare. La riconobbe immediatamente dal mezzo di trasporto appoggiato sui gradini e dal cappello. Rammentò all’improvviso dove aveva già visto quel copricapo: in una vecchia foto di famiglia. Si precipitò verso di lei. Ora aveva la certezza che la sagoma dell’uomo di spalle, che stava a pochi metri dall’anziana, appartenesse senza alcun ragionevole dubbio a Patrizio: era suo padre che portava quel cappello al mare, quando lei era bambina.

Li raggiunse, consumando tutto il fiato che le era rimasto nei polmoni. Ansimando sbraitò: – Papà, cosa cavolo ci fa qui?

– Non ti arrabbiare, Lisetta. Ti fa male. Stavo solo dando una mano alla signora Gilda – rispose candido il continuatore di film. – Sai, anni fa questa povera donna non ha più potuto permettersi un affitto con la sua misera pensione e adesso vive dove trova riparo. Io le faccio un po’ di compagnia e cerco di aiutarla. Per esempio, il signor Huang la settimana scorsa mi ha gentilmente dato la sua bicicletta perché gliela regalassi. Così può portare a termine la sua missione più facilmente.

Annalisa fissò la vegliarda in bicicletta che, seduta su tre coperte appoggiate in cima alla scala, nascondeva circospetta una scatola di biscotti dietro la schiena. Erano gli stessi biscotti dei quali lei abitualmente faceva scorta. Ma il fatto che Minerva sapesse molto di più di quanto le avesse fatto credere non le parve così importante, fece due respiri profondi per riprendersi e domandò come se fosse sensato: – Quale missione?

– Da una decina di giorni i morti chiamano la mia amica. Deve andare a raccogliere la loro voce prima che l’oblio se li porti via del tutto. I primi attimi dopo il decesso sono fondamentali, perché poi della loro anima non resta più nulla – le spiegò Patrizio.

La signora Gilda si sentì in dovere di completare: – Devo per forza spostarmi continuamente da un ospedale all’altro per ascoltare e memorizzare gli ultimi messaggi di chi abbandona la vita nella più completa solitudine, per colpa del Coronavirus. Scrivo tutto su questo blocchetto che porto sempre con me. Sono tutti pensieri per i loro parenti rimasti in vita, quelli che non hanno potuto riferirgli di persona. Solo che non so come portarglieli, non conosco gli indirizzi. Quando ti ho incontrato qualche giorno fa, poliziotta, i tratti del tuo viso mi hanno ricordato il mio amico Patrizio e ho pensato che forse eri buona come lui, forse avresti potuto aiutarmi. Ora che so che sei sua figlia, so anche che posso fidarmi di te. Tieni, questi sono i biglietti che ho segnato fino ad ora. Falli avere ai destinatari.

L’ispettore Consolati prese i foglietti che la vegliarda in bicicletta le porgeva. Disse solo: – Grazie, le prometto che me ne occuperò. Lei ha ragione: è nostro dovere cercare di consolare i familiari dei deceduti. E, per quanto sia possibile, in un modo o nell’altro lo faremo. Le do la mia parola.

La signora Gilda annuì.

– Andiamo adesso, per favore, papà. Minerva è preoccupata.

Era vero che a volte basta poco per finire una storia, convenne Annalisa. E non serve aggiungere altro per finire questa.

 

 

[1] Metafora ispirata alla canzone “A mano a mano” di Riccardo Cocciante / Rino Gaetano